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Il timore che le dinamiche del mercato del lavoro italiano possano portare molti individui a versare pochi contributi a fini pensionistici ha recentemente indotto studiosi e policy makers a ragionare su come offrire un’adeguata tutela previdenziale ai lavoratori più svantaggiati all’interno di un sistema, come quello contributivo (che si applica interamente a chi ha iniziato a lavorare dal 1° gennaio 1996), in cui l’importo della futura pensione dipende dal montante dei contributi versati lungo l’intera carriera e, pertanto, non è altro che lo specchio dell’esperienza lavorativa precedente.
Un intervento di tutela contro il rischio di ricevere una pensione d’importo limitato anche dopo una lunga vita attiva va pensato all’interno del sistema pubblico, dato che appare del tutto implausibile che un lavoratore povero e con frequenti periodi di interruzione dell’attività possa risparmiare per garantirsi un maggior consumo da anziano ricorrendo alla previdenza privata.
Il governo, negli scorsi mesi aveva iniziato a ragionare sulla possibilità di introdurre una forma di tutela per i lavoratori con pensione interamente contributiva, coerentemente con quanto delineato nell’accordo fra governo e sindacati siglato a settembre 2016. Nelle ultime settimane la discussione sulle tutele delle future pensioni è, tuttavia, scemata.
L’ultima idea circolata in ambienti governativi prevedeva di ampliare la cumulabilità fra pensione e assegno sociale (attualmente solo un terzo del valore della pensione è cumulabile con l’assegno sociale), in modo che nessun futuro pensionato con almeno 20 anni di contribuzione riceva una pensione di importo mensile inferiore a circa 660 euro. Si otterrebbe, dunque, un’integrazione di natura assistenziale, soggetta a prova dei mezzi e di importo slegato da età di pensionamento e precedente storia lavorativa.
In realtà, quando il governo aveva iniziato ad affrontare il tema delle tutele pensionistiche per i lavoratori del contributivo aveva pensato a uno strumento di natura ben diversa da quanto attualmente in discussione, ispirato alla “pensione contributiva di garanzia” ideata anni orsono da chi scrive. Questa idea nasceva dalla constatazione che, diversamente da quanto avveniva nel precedente schema retributivo, nel contributivo possono aversi pensioni di importo limitato, anche se la vita lavorativa non è stata breve, ma è stata caratterizzata da frequenti eventi sfavorevoli (bassi salari, part time involontari, periodi di disoccupazione o con contratti ad aliquota contributiva ridotta).
Ciò giustificherebbe una risposta di carattere previdenziale, basata cioè sulla ridefinizione della formula di calcolo della pensione, anziché di tipo assistenziale, come sarebbe una misura means tested di mero sostegno contro la povertà. In questa prospettiva, si dovrebbe inserire nello schema contributivo – che andrebbe senz’altro mantenuto come cornice, perché incentiva gli individui a contribuire e stabilizza il bilancio previdenziale – un importo garantito, non uguale per tutti, ma legato agli anni di contribuzione (effettiva, figurativa o riconosciuta tale dai servizi per l’impiego, per esempio per periodi di cura, di formazione o di ricerca del primo impiego) e all’età di ritiro, in modo da rendere l’importo coerente con la logica del sistema stesso, che mira a premiare chi lavora o è disposto a farlo di più.
La garanzia potrebbe essere pari a 14 mila euro annui lordi (pari a circa il 60% del salario medio dei lavoratori ultra-cinquantacinquenni) in caso di pensionamento a 66 anni e 42 di anzianità, da ridurre o aumentare proporzionalmente in caso di carriere più o meno lunghe, tenendo conto degli anni di contribuzione e dei coefficienti di trasformazione alle diverse età di ritiro (10.630 euro a 63+35 o 14.900 euro a 69+40). Ogniqualvolta, per una data combinazione di età e anzianità, la pensione contributiva a cui si ha diritto in base ai contributi versati fosse inferiore alla prestazione garantita, la prima verrebbe integrata nella misura della differenza con la seconda.
Il finanziamento dell’integrazione sarebbe posto a carico della fiscalità generale e comporterebbe un aggravio per il bilancio pubblico unicamente negli anni di corresponsione della prestazione integrata – dunque, trattandosi di un’integrazione da applicarsi nel solo schema contributivo, all’incirca dal 2040 in poi, quando la “gobba” della spesa pensionistica italiana dovrebbe attenuarsi sensibilmente. La maggior spesa dipenderebbe dal livello della soglia garantita e dall’evoluzione delle dinamiche di carriera individuale, che condizionano la probabilità per i lavoratori di ricevere prestazioni contributive inferiori a essa.
Tale maggior spesa sarebbe in parte compensata dai minori esborsi per prestazioni assistenziali, che verrebbero altrimenti erogate ai pensionati poveri, e si attenuerebbe laddove si procedesse a estendere ulteriormente gli ammortizzatori sociali (che, offrendo contribuzioni figurative, aumentano il montante contributivo) e a rendere più efficaci le politiche del lavoro e il controllo delle forme di lavoro sottopagate o falsamente autonome.
L’introduzione di una simile misura avrebbe il pregio di tutelare esclusivamente chi avesse una carriera lavorativa lunga, ma fragile. Al contempo, si minimizzerebbero i disincentivi alla prosecuzione dell’attività da parte dei lavoratori, crescendo sia la pensione contributiva che la prestazione garantita con l’allungamento della carriera individuale. In modo trasparente, si potrebbe poi decidere di tutelare maggiormente, in termini di garanzia pensionistica, alcune categorie di lavoratori – per esempio, chi fosse costretto a part time involontari o dovesse trascorrere periodi di cura o di formazione, ovvero di disoccupazione non indennizzata.
In generale, al di là della specifica misura che andrà introdotta, è auspicabile l’introduzione di una forma di tutela delle pensioni future di chi dovesse avere carriere particolarmente fragili, dal momento che non si può affatto ritenere che sia equo – in termini di effettiva giustizia sociale – che gli importi delle pensioni, anche delle meno generose, rispecchino esclusivamente i contributi versati nel corso dell’intera carriera, all’interno di un contesto, come quello del mercato del lavoro italiano, caratterizzato, quantomeno negli ultimi 20 anni, da molteplici e gravi forme di diseguaglianze salariali e contrattuali.
Michele Raitano è docente di Politica economica alla Sapienza Università di Roma