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Quanto vale il lavoro di un giornalista nel nostro paese? Qual è la soglia sotto la quale un giornalista freelance o un collaboratore che non ha la fortuna di essere tra quei pochi (sempre meno) che siedono in redazione, può dirsi sfruttato e mal pagato? Ecco, secondo l’accordo tra Fnsi (sindacato unitario dei giornalisti ) e Fieg (editori) siglato lo scorso 19 giugno, poi recepito – tra le proteste degli stessi giornalisti autonomi – in una delibera della “Commissione governativa per la valutazione dell’equo compenso”, istituita con l’intento di tracciare un argine rispetto a retribuzioni (quando ci sono) sempre più misere, non vale molto.
Il compenso minimo per un collaboratore che scrive o segnala minimo 40 notizie per un’agenzia stampa o uno sito di informazione online è di 250 euro lorde al mese. Poco più di 6,25 euro lordi a pezzo, maggiorati del 30 o del 50% per cento se si producono anche foto o video. Per un collaboratore di un quotidiano che scrive minimo 12 pezzi al mese (di 1.600 battute) è, senza troppo sforzo di fantasia, 250 euro al mese. Circa 20 euro lordi ad articolo. Per il collaboratore di un settimanale, il compenso arriva ai 60 euro lordi. Le spese rimangono a carico dei collaboratori che, in caso di mancata pubblicazione degli articoli, non riceveranno corrispettivo. Si tratta, nelle intenzioni degli estensori delle tabelle, di compensi minimi, ma guardando l’andazzo degli ultimi anni, il rischio concreto che gli editori colgano la palla al balzo per livellare verso il basso i compensi c’è tutto.
“Non conta l’argomento, può essere un’inchiesta sulle mafie o un pezzo scritto con il copia e incolla, e nemmeno la testata: ‘quotidiano’ è il Corriere della Sera o l’Eco di Canicattì. È legge dello Stato il principio assurdo che più si lavora meno si guadagna”, dice Maria Giovanna Faiella, rappresentante dei freelance nella ex commissione contratto della Federazione della Stampa. Il riferimento è a un passaggio della delibera (non contemplato però dall’accordo sindacale) che introduce un meccanismo di riduzione dei compensi al 60% (del trattamento minimo) qualora si sforassero i 144 articoli (e fino a 288) nel caso di un quotidiano. Per produzioni superiori, le parti dovrebbero concordare un compenso forfettario mensile. “Facendo due conti – spiega Enzo Iacopino, presidente dell’Ordine dei giornalisti, contrario all’accordo sindacale – a un giornalista che scrive 288 articoli all’anno con un compenso minimo di 4.800 euro, tolti la ritenuta del 20 per cento e i contributi da versare all’Inpgi, rimangono in tasca 3.360 euro netti: 11,20 euro a pezzo, a cui deve ancora togliere le spese del telefono e degli spostamenti”. E a chi non raggiunge il numero minimo di articoli? L’equo compenso semplicemente non viene applicato.
Il compenso degli autonomi, dei freelance e dei collaboratori non è un dettaglio di poco conto: oggi rappresentano il 60% dei circa 47 mila giornalisti attivi in Italia. Su di loro si basa buona parte della produzione di contenuti delle testate di informazione del nostro paese. Un mondo, tra l’altro, in “crisi irreversibile” secondo la Fieg: dal 2006 al 2013 i ricavi pubblicitari dei quotidiani sono diminuiti di 630 milioni, con una flessione del 60%, a fronte di un calo delle vendite del 36% (1,6 milioni di copie in meno). Il passaggio all’economia digitale, all’informazione di fatto senza prezzo e poco regolamentata, non riesce a bilanciare le perdite (raccolta pubblicitaria su del 30%, ma appena pari al 4% del totale), e crea le condizioni per nuove forme di sfruttamento.
I “cinesi” dell’informazione
Sullo sfondo, una professione che è totalmente cambiata dal punto di vista occupazionale nel giro di 12 anni. Nel 2000, secondo una ricerca Lsdi (Libertà di stampa diritto all’informazione), gli autonomi erano appena 1 su 3 (35% contro il 65%) dei 21 mila giornalisti attivi (con posizione previdenziale aperta all’Inpgi). Nel 2012, i rapporti di forza all’interno della professione erano completamente ribaltati: il 60% dei giornalisti erano autonomi, appena il 40% dipendenti, su un numero di giornalisti attivi pari a 47 mila. Una crescita in termini assoluti che si spiega soprattutto con l’esplosione del numero di collaboratori. Che, in un mercato senza regole, hanno visto i loro redditi andare sempre più giù. “C’erano colleghi – spiega Stefano Tesi, collaboratore storico del Giornale – che prima fatturavano anche 50-60 mila euro all’anno, oggi quegli stessi colleghi chiudono baracca e burattini”. Un freelance guadagna in media 11.278 euro all’anno, e un co.co.co 8.973 euro, contro i circa 62 mila euro di un giornalista contrattualizzato. Fino a sette volte di meno. È il dato che spiega meglio di ogni altra cosa perché gli editori, in mancanza di vincoli reali, ormai preferiscano non assumere, riducendo le redazioni all’osso. Sempre lo stesso rapporto dice che il 48,9% dei giornalisti autonomi nel 2012 aveva un reddito inferiore ai 5 mila euro, il 18,7% sotto i mille. Si tratta sempre di giovani? La maggioranza degli iscritti alla gestione separata dell’Inpgi ha tra i 31 e i 55 anni di età, mentre tra gli assunti l’età media è sempre più alta: un giornalista su tre ha più di 50 anni (erano 1 su 5 nel 2000), la metà ha tra i 35 e i 50, mentre il numero di praticanti si è praticamente dimezzato nel giro di 7 anni.
Equo compenso
Nel dicembre 2012, dopo una lunga e complessa campagna portata avanti dagli autonomi con il sostegno dell’Ordine dei giornalisti e di una parte del sindacato, il Parlamento approvò la cosiddetta legge per l’equo compenso, proprio per disciplinare il comparto. “Quella legge – spiega Faiella – intendeva fissare un principio di dignità per la professione e per chi la esercita. Ricordiamolo, i giornalisti hanno un compito delicato: assicurare ai cittadini una corretta informazione”. La legge istituiva anche la relativa Commissione per la valutazione dell’equo compenso, paralizzata per un anno e mezzo dall’opposizione degli editori. Fino all’accelerazione degli ultimi mesi. Ma da dove escono i numeri delle tabelle? “La risposta che ci siamo dati – dice Maurizio Bekar addetto stampa freelance e membro della commissione contratto dell’Fnsi –, è che si tratta di numeri a caso. La leggenda metropolitana è che la legge sull'equo compenso sia inapplicabile. Non è così. Quella norma stabilisce un principio giusto e di una chiarezza solare: l'equo compenso va riconosciuto in ‘coerenza con i trattamenti previsti dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria’ e a tutti i giornalisti senza contratto di lavoro subordinato, e ciò in attuazione dell'articolo 36 della Costituzione. Cosa di cui non vi è traccia nell’accordo”. Già, perché tra i paletti dell’intesa tra il sindacato e gli editori, rimangono esclusi buona parte dei lavoratori non subordinati, come i giornalisti che lavorano per più testate. Anche se, dunque, i parametri economici a molti paiano largamente inadeguati, resta il fatto che tantissimi giornalisti non assunti con contratto a tempo indeterminato, restano fuori dal "perimetro" dell'equo compenso, per quanto esso possa essere inadeguato. La platea a cui si applica l’accordo si riduce così a 7.954 giornalisti (i co.co.co). Per chi, infine, lavora con la partita Iva o con la ritenuta d’acconto per avere 250 euro al mese deve avere lavorato per lo stesso committente 8 mesi all’anno per 2 anni e il suo guadagno deve rappresentare l’80% dei corrispettivi annui. In più nell'accordo Fnsi-Fieg non c’è una parola per la stabilizzazione di chi lavora in esclusiva per un unico editore.
Lo scambio
“L’accordo sull’equo compenso è stata la moneta di scambio per arrivare a firmare il rinnovo del contratto nazionale per i giornalisti dipendenti. Ma anche loro perdono, l’accordo apre la strada a espulsioni di massa, perché a parità di lavoro, un autonomo costa cifre ridicole rispetto a un assunto”, dicono i freelance. “Nell’accordo – ribatte Franco Siddi, segretario della Fnsi – nessun diritto è stato leso, semmai se ne sono aggiunti altri a tutele crescenti, dove non ce n’erano”. Certo è che anche le clausole del nuovo contratto e del protocollo di intesa per l’accesso ai fondi per l’editoria (siglati il 24 e il 25 giugno), 120 milioni di euro a cui gli editori guardano, non a caso, anche per finanziare nuovi prepensionamenti, sembrano fatte apposta per favorire precarietà e nuovi tagli alle redazioni. Proprio i prepensionamenti sono lo strumento usato negli ultimi anni dagli editori per alleggerire le redazioni che hanno perso circa 1.600 posti di lavoro, la metà nel solo 2013.
Scarse le contropartite imposte agli editori: le aziende che accedono al fondo per l’editoria dovranno assumere un giornalista ogni tre prepensionamenti. Ma solo in un caso su 5 – il decreto a cui sta lavorando il governo dovrebbe contenere questo passaggio – l’editore sarà tenuto a stabilizzare.
Tra le misure previste nel contratto c’è anche l’introduzione dell’apprendistato professionalizzante con salario di ingresso ridotto per 36 mesi (il praticantato secondo la legge istitutiva dell’Ordine dei giornalisti del ’63 era di 18 mesi) e stipendi decurtati per i nuovi assunti a termine o a tempo indeterminato per altri 3 anni, con tagli fino a 700 euro. E, infine, il punto controverso degli incentivi e degli sgravi agli editori che, “estesi anche ai contratti a tempo determinato – osserva Paolo Butturini, segretario dell’Associazione stampa romana, contrario agli accordi – hanno mostrato tutta la loro inefficacia, producendo in passato appena 300 assunzioni a tempo indeterminato”.