PHOTO
Consumi petroliferi in picchiata, costi di gestione in costante rialzo e ingresso sul mercato globale di nuovi attori che operano in condizioni più vantaggiose. Sono i tre fattori che stanno falcidiando il settore della raffinazione in Italia, con impianti costretti a chiudere o a sospendere la produzione e devastanti effetti sul tessuto occupazionale.
Nel primo trimestre del 2012 – come evidenziano i dati elaborati dall’Unione petrolifera italiana – la produzione delle raffinerie italiane ha segnato una contrazione pari al 6% rispetto all’analogo periodo dell’anno precedente. La prima struttura a pagare lo scotto di questo crollo è stata quella situata a Cremona, di proprietà del gruppo Tamoil, che nel corso del 2011 è stata chiusa e progressivamente riconvertita in un deposito. La società ha motivato la decisione con gli eccessivi costi che avrebbero determinato una perdita annua stimata in 25 milioni di euro. E le conseguenze sono state pesantissime poiché hanno coinvolto – oltre ai 280 lavoratori di Cremona – anche 500 addetti a Milano.
Lo stesso triste destino ha riguardato la raffineria Total Erg di Roma, che a giugno ha definitivamente interrotto la produzione. Anche in questo caso l’impianto subirà la riconversione in un polo logistico che, però, assorbirà soltanto 85 lavoratori su un totale di 260. Lo scorso 18 aprile l’Eni ha fermato due linee su tre della raffineria di Gela, ricorrendo alla cassa integrazione a zero ore della durata di un anno per 500 persone. Motivazione: nei tre esercizi precedenti le perdite accumulate avevano raggiunto i 200 milioni di euro. Il cane a sei zampe aveva già adottato una decisione simile per la struttura di Porto Marghera (Venezia), la cui produzione era stata interrotta per sei mesi a partire dal novembre 2011, con 220 dei 360 occupati costretti alla cig.
A queste realtà bisogna aggiungere le enormi difficoltà che stanno attraversando l’Api a Falconara e la Ies a Mantova, oltre alla decisione della Erg – definita lo scorso febbraio – di vendere l’80% dello stabilimento di Priolo (Siracusa) ai russi della Lukoil.
Il quadro tracciato è quindi drammatico, soprattutto se si considera che questo crollo verticale sta erodendo un mercato in cui sono impiegate circa 19mila persone, che arrivano a 40mila con l’indotto. E il futuro non sembra riservare sostanziali miglioramenti, poiché bisogna tener conto che “per non incorrere in perdite – ha rilevato Augusti Pascucci, segretario della Uilcem - gli impianti devono lavorare almeno al 90% della loro capacità produttiva. Ma diversi lavorano al 60-70%, un livello non sostenibile. I margini di raffinazione sono negativi per tutti. I costi lordi si aggirano sui 4 dollari al barile, mentre i ricavi vanno da 1,5 a 2 dollari”.
Il trend negativo non rappresenta un problema recente, ma affonda le radici in dinamiche strutturali. Si tratta di un declino inesorabile: nel 2000 l'Italia produceva 136 milioni tonnellate di prodotti raffinati, nel 2007 106 milioni, nel 2010 90 milioni, l’anno scorso 70 milioni. Le cause vanno però ricercate ancora più indietro e riguardano tutta l’Europa. “A partire dagli anni 70 il settore della raffinazione europea ha vissuto di capacità in eccesso – si legge sul paper ‘Elementi sulla raffinazione europea’, redatto dal World Energy Council Italia – che sono stati bilanciati con forti interventi di ristrutturazione, avvenuti soprattutto a partire dalla metà degli anni 80”.
Successivamente sono emersi altri fattori come “l’accentuazione dello squilibrio nella struttura dei consumi, con un forte aumento della domanda di gasolio e una significativa diminuzione dei consumi di benzina, rispetto ai vincoli fisiologici della raffinazione”.
E le storture della globalizzazione hanno chiuso il cerchio, con l’Europa che oggi “importa ogni anno un volume crescente di prodotti petroliferi provenienti da paesi dove sono in vigore misure di sostegno e sussidi che, uniti alla mancanza quasi assoluta di oneri ambientali, rendono artificialmente più competitivi i costi dei loro prodotti”.
Trovare una via d’uscita è quindi sempre più complicato. Anche perché il mercato è spietato. “Non tutte le raffinerie italiane sono nella stessa condizione – sottolinea Benedetto Runcio, responsabile relazioni esterne di Total Erg – Quelle più piccole soffrono in maniera particolare e sono destinate a breve vita in quanto non sono più in grado di raffinare il prodotto a prezzi concorrenziali”. La politica industriale del nostro Paese necessita di un piano complessivo e di lunga durata. E lo stesso discorso vale per la crisi della raffinazione, che non può più essere affrontata ragionando a breve termine. “Urge una pianificazione organica, dobbiamo stabilire il fabbisogno energetico per il prossimo ventennio e avviare una modernizzazione degli impianti – auspica Gabriele Valeri, segretario nazionale della Filctem – Servono quindi forti investimenti”. In caso contrario compreremo soltanto dall’estero e un altro comparto essenziale del nostro tessuto economico sarà smantellato.