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Flessibilità di bilancio, invoca il governo; e, d’altronde, è tempo di Def (Documento di economia e finanza) e di relative trattative con Bruxelles; cioè in primis con Berlino. Richieste ragionevoli, vista la nostra bassa crescita; ma ricordando che la severità teutonica tutela anche il contribuente italiano, che del deficit/debito è il garante d’ultima istanza. Nel farlo, l’esecutivo se la prende col surplus commerciale tedesco, considerato un freno per le altre economie dell’Eurozona in quanto ne sostituirebbe le produzioni. Tesi questa diffusa sia in ambienti euro sì (ultimo Fubini sul Corriere) che, soprattutto, euro no; ma è sempre e comunque vera?
In ragione di ciò interessa la posizione di Palazzo Chigi, sebbene essa vada intesa, più che come un contributo d’analisi, come un atto politico per segnare un vantaggio – con base legale nel cosiddetto Six pack europeo, che vieta surplus commerciali superiori al 6 per cento per più di tre anni consecutivi – nella trattativa sulla flessibilità con Bruxelles/Berlino. Nel senso che, al di là delle contingenze di opportunità politica, merita comprendere se, come diffusamente pensa il nostro ceto politico, per la ripresa della Penisola (che cresce con mini cifre da margini da errore statistico) e dell’insieme dell’Unione europea basterebbe una Germania che, potendolo fare grazie al suo “motore export”, aumentasse la domanda interna, cioè il suo import.
In definitiva, sul banco degli imputati c’è il cosiddetto “mercantilismo” tedesco, dottrina per la quale il vigore di un’economia nazionale sta nella sua forza nei mercati esteri, magari sacrificando un po’, appunto, il mercato interno: infatti, è questo surplus commerciale che, per i critici, fa crescere Berlino a spese dei condomini europei, soffocando il lato Mediterraneo, Italia compresa, dell’Unione monetaria europea (Ume). E tuttavia, la tesi presuppone che il surplus commerciale tedesco avvenga a spese del proprio import, cioè tagliando la domanda internazionale. L’ipotesi è lecita in via di principio; ma negli ultimi anni il saldo commerciale di Berlino col resto dell’Ume è minimo; poi, le importazioni tedesche sono sempre cresciute.
Certo, il surplus commerciale tedesco è gigantesco; ed è altrettanto vero che sia il Fondo monetario internazionale (Fmi), sia il presidente della Bce Draghi hanno sostenuto che proprio questo surplus consentirebbe a Berlino medesima una politica di investimenti pubblici e privati più espansiva; nonché necessaria per l’ammodernamento infrastrutturale della Germania.
Nondimeno, l’export tedesco – dati Eurostat (l’Istat europeo) – si concentra in gran parte nel mondo del capitalismo emergente extra Ue; mentre, per quanto attiene all’eurozona, addirittura la Germania tende a importare più di quanto esporti. In sostanza, nella Repubblica federale, via spesa pubblica e aumenti salariali, l’austerity (anche se meno di quanto forse vorrebbero Fmi e Bce) è stata almeno parzialmente archiviata. In altri termini, pare difficile vedere nel surplus commerciale tedesco, come fa pure Palazzo Chigi per meglio trattare a Bruxelles, la causa dell’anemica crescita del Belpaese.
Oltretutto, con l’export tedesco viaggiano componenti di qualità di aziende d’eccellenza tricolori (nel dopo Fiat l’industria della componentistica auto italiana è divenuta fornitrice di livello dell’industria teutonica); e quindi un crollo di questo export invece di avvantaggiarci ci rallenterebbe ulteriormente. Pertanto, il nostro problema di crescita è in gran parte interno.
Il nostro capitalismo tuttora è capace di creare dei gioielli d’industria; ma è anche vero che vi sono molti fattori – fiscali, di costo dei sevizi di rete (energia, traporti) a carico delle imprese, vincoli burocratici, poca ricerca e sviluppo – che bruciano la nostra competitività; infine, manca l’illusione di “mettere le nostre debolezze sotto il tappeto”, svalutando (qui la lezione di un grande economista come Augusto Graziani sulle svalutazioni degli anni settanta del Novecento è sempre attuale), così favorendo i settori più arretrati sui più avanzati del nostro capitalismo. Ovvio poi che, restando questi nodi, l’euro (nato pieno di difetti) sia percepito come una trave; ma così si guarda al dito invece che alla luna che esso indica.
Francesco Morosini è professore a contratto di Istituzioni di Diritto pubblico presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia