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Da anni, in Italia, il funzionamento del sistema pensionistico è uno dei temi più ricorrenti del dibattito economico e politico. Oltre alle riforme attuate, ad ogni legge di bilancio, l’argomento torna d’attualità nei lavori parlamentari e nei confronti tra governo e parti sociali. I giornali e gli altri media dedicano largo spazio alle pensioni, con discussioni che, purtroppo, non sempre mostrano la competenza e il rigore analitico che sarebbero necessari. L’emergere continuo di dati e di notizie contrastanti accresce l’apprensione dei lavoratori, sempre più insicuri e dubbiosi circa i possibili cambiamenti di un quadro normativo da cui dipendono le condizioni di vita degli attuali e dei futuri pensionati. Già da questa premessa si capisce come il cosiddetto “cantiere sempre aperto”, cioè discutere continuamente di pensioni da riformare, con proposte sempre diverse, sia in sé un fatto controproducente. Dare sicurezza alle persone è infatti l’obiettivo fondamentale di un sistema di protezione sociale. Anche tenendo conto delle analisi critiche sui sistemi tradizionali di welfare, non si può negare che negli anni del grande sviluppo post bellico il futuro da anziani era meno carico di incertezza rispetto a quello che si prefigura oggi per i lavoratori, giovani e meno giovani.
Due sono gli elementi basilari su cui si basa, anche nel confronto europeo, la valutazione dei sistemi pensionistici: essi sono la sostenibilità finanziaria e la sostenibilità sociale, ossia l’adeguatezza dei trattamenti rispetto al livello di vita raggiunto nel corso della carriera lavorativa. Vediamo, in estrema sintesi, come le due questioni sono valutabili nella realtà del nostro paese. Cominciando dalla sostenibilità finanziaria, si possono elencare alcuni fatti. Dall’inizio delle riforme, più precisamente dal 1990, la dinamica del rapporto tra spesa per pensioni e prodotto interno lordo – l’indicatore usato a questo scopo – è caratterizzata da un progressivo contenimento della spesa per pensioni e da un sempre più basso tasso di crescita del Pil che, negli anni della crisi, è diventato addirittura negativo. Il contenimento della spesa per pensioni è in larga misura dipeso dal numero di pensioni erogate che, con il progressivo inasprimento dei requisiti di accesso, ha dapprima rallentato, iniziando poi a calare dal 2009. L’ammontare medio delle prestazioni, invece, con l’effetto combinato di nuove pensioni liquidate di importo superiore alle cessate e della minore indicizzazione ai prezzi, ha mantenuto un profilo di crescita lineare contenuto all’1,5% annuo.
Negli anni del grande sviluppo post bellico il futuro era meno carico di incertezza rispetto a oggi
Nel triennio più recente 2014-2016, la spesa per pensioni è aumentata in media annua meno delle altre spese della pubblica amministrazione e meno di un quarto di quanto siano cresciute le altre spese per la protezione sociale. Negli stessi anni, è bastata una lieve ripresa dell’economia per mantenere inalterato il rapporto tra spesa per pensioni e Pil. L’obiettivo di stabilizzare tale rapporto, previsto fin dalla prima fase delle riforme, appare perciò sempre più dipendere dalla capacità di crescita dell’economia, che non da un’azione di ulteriore contenimento della dinamica della spesa pensionistica che, oltre alle conseguenze sociali negative, appare poco realistica sia dal punto di vista economico che politico. Dalle più recenti previsioni a medio termine del ministero dell’Economia (Def aggiornato 2017), si desume che anche nei prossimi anni il peso della spesa per pensioni sul Pil dovrebbe rimanere stabile. Se poi si guarda al lungo termine, le proiezioni del modello della Ragioneria dello Stato confermano le proprietà note di un sistema di calcolo contributivo, cioè avere una quota di spesa pensionistica sul Pil proporzionale alle aliquote contributive, mantenendo in equilibrio i conti per la parte strettamente previdenziale.
Alla base di questa proiezione ci sono ipotesi demografiche e di crescita economica che, qualora non si realizzassero, dati i meccanismi di autoregolazione del calcolo contributivo, non causerebbero gli effetti negativi spesso paventati sulla sostenibilità finanziaria del sistema, bensì si tradurrebbero in prestazioni più basse a parità di carriera e di età anagrafica. Tale esito rimanda direttamente al secondo aspetto fondamentale del sistema pensionistico, ossia all’adeguatezza delle prestazioni. Tra i motivi che hanno spinto ad aumentare l’età pensionabile c’è proprio questa finalità: preservare da un lato i meccanismi di aggiustamento agli andamenti demografici ed economici per non mettere a rischio la sostenibilità finanziaria del sistema e, dall’altro lato, non pregiudicare l’adeguatezza dei trattamenti grazie ad età più elevate di pensionamento.
Questa linea di indirizzo, in apparenza coerente, si scontra tuttavia con i vincoli posti dalla fascia di età di riferimento. Se portare l’età di pensione oltre i sessant’anni, come nelle prime riforme, poteva essere un obiettivo non arduo da perseguire, quando la soglia minima si alza in direzione dei settant’anni, emergono problemi di difficile soluzione, per l’occupazione, le condizioni di salute e l’adattabilità a certi tipi di lavoro. Come si è visto nella vicenda degli “esodati”, e non solo, rapidi aumenti e rigidità dei requisiti di età fanno emergere una serie di criticità la cui soluzione comporta misure straordinarie che alterano ogni percorso di armonizzazione delle regole previdenziali. Qualche passo per riavere un po’ di flessibilità in uscita è stato compiuto con l’adozione dell’anticipo pensionistico (cosiddetta Ape), ma il ripristino di una flessibilità come quella della legge Dini, seppure corretta nei limiti di età, manca tuttora nel sistema italiano. La sola eccezione è la pensione anticipata contributiva, che attufalmente si ottiene a 63 anni e 7 mesi con 20 anni di contributi, per la quale però il requisito di un importo minimo della prestazione maturata pari a 2,8 volte l’assegno sociale comporta effetti distributivi distorti, dato che penalizza l’uscita delle pensioni medio basse, spesso corrispondenti a lavoratori con aspettative di vita inferiori alla media.
La pensione minima "sociale", oltre a richiedere un elevato sforzo finanziario, presenta problemi di equità
La decisione adottata dal governo con l’emendamento alla manovra di Bilancio 2018, di esentare in modo selettivo alcune categorie che effettuano lavori “gravosi ”dall’adeguamento del limite minimo di età alla speranza di vita, può essere considerata un segnale di attenzione rispetto all’oggettiva difficoltà di svolgere certe attività oltre date soglie di età. Tuttavia, tale misura lascia ancora aperti diversi problemi, dalla validità dei criteri con cui sono individuati i soggetti esentati, per categoria e non per effettive mansioni svolte, alla mancata coerenza tra l’ammontare della prestazione maturata e l’effettiva aspettativa di vita di chi beneficia dell’esonero.
In tema di adeguatezza delle prestazioni, è infine da richiamare una delle questioni più rilevanti, quella delle pensioni basse, che al momento non sembra ancora trovare soluzioni legislative efficaci. Infatti, se dalle simulazioni teoriche sui cosiddetti tassi di sostituzione, emergono, anche in prospettiva, livelli di pensione non troppo ridotti rispetto ai redditi da lavoro di fine carriera, non si può non considerare il rischio sociale di un numero crescente di lavoratori, soprattutto giovani, che per discontinuità del lavoro o per retribuzioni basse rischiano di avere pensioni insufficienti per una vita decente in età di vecchiaia.
L’idea di una pensione minima, “sociale” nel senso che prescinda dalla contribuzione, oltre a richiedere una generale modifica degli attuali sostegni assistenziali e un elevato sforzo finanziario, presenta problemi di equità, soprattutto nel caso di un differenziale troppo basso rispetto ai trattamenti maturati a calcolo, con effetti disincentivanti per la contribuzione. Per limitare il problema, potrebbero essere considerate con attenzione forme di contribuzione aggiuntiva poste a carico della fiscalità generale (cosiddetta matching contribution), già presenti in altri ordinamenti, con cui si integrano contributi inferiori a un livello minimo, da accreditare nel corso della vita lavorativa in situazioni di basse retribuzioni, maternità, lavori di cura e periodi di ricerca attiva del lavoro, con due effetti: incentivare il lavoro regolare e garantire una progressiva maturazione della pensione al riparo dai rischi che il legislatore possa in futuro intervenire sui livelli della pensione minima quando si è già troppo vicini all’età di pensione.
In conclusione, il sistema pensionistico italiano presenta ancora diverse criticità che riguardano soprattutto il versante dell’adeguatezza delle prestazioni. Per trovare soluzioni, sarebbe necessario un insieme coerente di misure, all’interno di un pacchetto organico finalizzato a riordinare in un unico provvedimento le principali questioni irrisolte e a porre fine al continuo stillicidio di proposte per riformare le pensioni, che mina sempre di più la sicurezza di chi lavora.
Gianni Geroldi, economista, già professore ordinario di Scienza delle finanze