(Seconda puntata del nostro viaggio tra coronavirus e scrittori)

Attraverso questo strano e non facile momento a Parigi, dove abito, e dove l’allerta Coronavirus non ha assunto la forma di particolari cambiamenti di usi e costumi del vivere comune. Chissà per quanto ancora ma – se pure nettamente meno del solito –  strade, caffè, autobus e metropolitane sono affollati. Non che l’ansia per l’epidemia non galoppi tutt’intorno; però mancano segni tangibili, tracce di radicali nuovi assetti che possano amplificare l’angoscia dei pensieri. Visioni trasformate che mi facciano sentire preoccupata più di quanto già non sia. Lo stesso l’ansia aleggia, abita dentro; da dieci giorni (o più? ho perso il conto, il tempo s’è come dilatato) il mio guardare la realtà è più che mai scisso, strabico, un occhio puntato fisso all’Italia – anche al mondo, certo, però all’Italia soprattutto – l’altro alla vita, occhio vigile sulla mia e quella di chi amo.

La vita prima di questo deflagrare – di un’epidemia, ma anche di molto altro.

Il diverso rapporto con il futuro è la trasformazione più spiazzante. Faccio parte di quella vasta categoria di persone che sono solite vivere pianificando, trovando senso e rassicurazione in un monitoraggio continuo del loro tempo, organizzato secondo scansioni, orizzonti di date ed eventi a venire. Giorni e appuntamenti collocati nel futuro, prossimo o lontano, cui sono solita abbrancarmi come a protesi di me, e che invece improvvisamente o si vanificano, o diventano labili, immersi in una nebbia di possibilità che contiene nella sua bruma una buona dose di incertezza.

Il proprio avvenire come ipotesi: un paradigma nuovo, che dilata il presente, illumina il passato, mentre su quel che accadrà “dopo” mantiene un riserbo molto preoccupato. Non è caos quello generato da questo scomporsi delle certezze temporali: piuttosto direi uno smarrimento sconsolato e mite, un sussulto di vulnerabilità, atterrito, senza parole. Epifania muta di uno scoprirsi privi di strumenti per decifrare, la realtà così come se stessi. Per chi scrive, per quanti di noi lavorano con le parole, condizione destabilizzante anche da un punto di vista professionale, e perciò sentita come onnipervasiva, che schiaccia.

Il secondo pensiero è rivolto al Sé. Prende forma in embrione in queste settimane, penso, un modo nuovo di concepire le proprie identità. Ci si sente con gli altri, con tutti. Posti di fronte alla medesima minaccia e perciò interconnessi, nonostante ogni separazione da contagio. Davanti a questo grande pericolo che ci riguarda come esseri umani, senza distinzioni, ogni interesse personale quantomeno cambia di valore. A occhio nudo ecco si mostra la vanità dell’essersi sentiti importanti, anche unici. Come un’espiazione: tante forme di narcisismo verranno azzerate da questa nube di contagio, mi viene da supporre. La mannaia di questa malattia terribile, insidiosa e misteriosa, agirà da Grande Livellatore… Fantasie apocalittiche, la cui intensità è misura del disorientamento.

Conta moltissimo il lavoro. Leggere, scrivere, stare in ascolto, pensare. Come non mai, impegnarsi è la vera barra del timone; però acquattati, lì anche senza poter prevedere niente. Quanto durerà questa paura? Quanto l’allarme di queste settimane, e i disagi, e gli effetti nella lunga durata trasformeranno i nostri modi di stare al mondo, di lavorare, di amare? Domande ampie, avvolte loro anche dalla bruma incerta di questi giorni molto tesi e cupi. Chissà. Allenarsi all’imprevedibile. Addomesticare l’angoscia cedendo a una duttilità del pensiero. Perché dopo questo forme nuove saranno quelle che useremo: per pensare il tempo, e gli altri, e noi stessi.

GLI INTERVENTI PUBBLICATI:
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Le parole che servono
, D.Orecchio