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(Dodicesima puntata del nostro viaggio tra coronavirus e scrittori)
Nei giorni scorsi ho avuto l'influenza, vissuta da solo a casa perché mia moglie si è fratturata il femore sciando due mesi fa e, stando noi al quarto piano, per un periodo è andata a vivere da sua sorella. Tendo per mia natura a non drammatizzare, ho perso una precedente moglie giovanissima di cancro, mi sono costruito “la corazza”, quindi uscivo di casa con il cane – il boxer londoniano Buck, adorabile – anche con la febbre e al freddo, direi in maniera quasi temeraria, sfidando la cattiva sorte e il virus. Buck per ripagarmi veniva al mio capezzale ogni 10 minuti a controllare il mio stato di salute, guardandomi con gli occhi lucidi, interrogativi.
L'influenza mi ha lasciato una stanchezza fortissima. Intanto, arrivavano notizie contrastanti, troppo contrastanti, i cosiddetti esperti nelle società mediatiche si esibiscono, spaventando la gente, i miei figli stavano a Bologna e a Milano, non potevano tornare. Prima c’è stata l’angoscia, il panico, la paura di molti che non era la mia, poi tutto è fisiologicamente passato a uno stato di allerta e di adattamento alla clausura, quindi il tempo è diventato un tempo di attesa e di transito, come se le vite di tutti si fossero fermate. Quindi uscire con Buck è stato e resta un vero e proprio privilegio, ogni uscita è diventata un osservatorio sulla vita degli altri.
Il clima nella via in questi giorni è da fine dell’umanità, la grana del silenzio a momenti rasserena, sembra quella degli anni 60, oppure dei tempi dell’Austerity, che ricordo benissimo, di ipersocialità, in altri momenti spaventa, sembra quella di prima di una Apocalisse. La gente mi chiama dai balconi, la cosa più bella è stata la riscoperta della nostra reciprocità, la riscoperta del legame sociale, il capire che nessuno vuole stare solo, come ci stanno cercando di far credere i potenti, i media, le tecnologie, la ricerca disperata di parlarci, salutarci, nella mia via è successo spesso in questi giorni. Ho sentito tutti più vicini. Una signora mi ha chiesto se potevo prestarle il cane, per uscire, ho visto un signore, che di solito incontro a passeggio, che si allenava nel quadrato del suo attico nel palazzo che sta di fronte al mio, dalle case potevano arrivare le musiche più diverse, il Nabucco invece che l’Aida o i Rolling Stones, cose che probabilmente c’erano anche prima, ma che adesso, senza più rumori di sottofondo, riuscivano finalmente acusticamente ad affiorare, così come percepivo struggente il canto degli uccelli, l’abbaiare dei cani.
Certo ho pensato a certi libri che hanno colonizzato il mio immaginario, soprattutto quelli di Ballard, Camus, ho pensato che questa poteva essere un’occasione per ripensarci come società, ma gli intellettuali – quelli veri – vivono sempre dentro questa riflessione profonda. E gli altri? Siamo sicuri che servirà? Mi dicono che le vendite dei libri siano crollate, la gente non vuole pensare, invece si sono impennati gli share delle tv, la corsa agli accaparramenti nei supermercati.
Una cosa è certa, tutti abbiamo capito sulla nostra pelle che siamo schiavi dei mercati, il virus provocherà a catena chiusure di attività economiche, commerciali, siamo tutti consumatori che tengono in vita altri consumatori, e che alimentando questo grande mercato i ricchi saranno sempre più ricchi, e tutto il fronte dei precarizzati, delle fasce più deboli, come gli operai delle fabbriche, ha una doppia esposizione, al virus e alla minaccia della perdita del posto di lavoro.
Il virus mostra la debolezza delle società che abbiamo creato, ma nessuna voce si è alzata a difesa del welfare, contro le privatizzazioni della sanità che hanno tolto risorse, specie in Lombardia e in Veneto, le regioni più colpite, governate da un trentennio dalla Lega, dove hanno tagliato servizi, cancellato presìdi, ospedali, così come purtroppo è successo anche in regioni storicamente governate dal centrosinistra. Non c'è stata una sola voce civile, politica, spirituale, che si è elevata sopra a dichiarazioni tecniche, mediatiche, mediche.
Quella che manca, oggi, è una lingua che vada oltre il parlato dell'eterno presente, una lingua umanistica nuova. Se non cerchiamo quella lingua, se non troviamo quella lingua, politica, letteraria, civile, rischiamo di diventare anche noi scrittori, artisti, complici di quella banalizzata, spettacolarizzata, cinica del grande mercato globale, quella che, per dirla alla Volponi, fa parlare il banco del supermercato, il quale diceva, profetico, che “sembrava scomparsa la profondità del mondo”.
GLI INTERVENTI PUBBLICATI:
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Le parole che servono, D.Orecchio