Il 12-13 febbraio si terrà a Roma il convegno 'La medicina della differenza. La sfida della salute di genere', a cura dello Spi Cgil. Appuntamento a Roma, presso il Centro Congressi Frentani, Auditorium, via dei Frentani, 4, a partire dalle ore 14.30. Qui il programma

Probabilmente tutte e tutti sanno che la vita media delle donne è più lunga di quella degli uomini (nel 2011, la vita media degli italiani è di 84,5 anni per le donne e di 79,4 anni per gli uomini). Ma il dato importante, il dato che fa riflettere, è un altro: quanti anni di vita sana ci attendono? Bene, all’età di 50 anni (dati Lancet 2008) gli uomini si aspettano di vivere altri 20.63 anni in buona salute, le donne altri 20.86. Non c’è quasi nessuna differenza tra i due generi. Ma se è vero che le donne vivono più a lungo, tuttavia hanno davanti a sé anni di vita malata. Perché? Molte sono le domande a cui dobbiamo cercare risposta.

Ad esempio quali sono le malattie che ci fanno vivere infelicemente gli ultimi nostri anni? Ma soprattutto: le differenze tra uomini e donne, sono limitate alla sfera riproduttiva (caratteri sessuali primari e secondari) o sono estese a tutta la fisiologia e quindi alle patologie? E forse è proprio la scarsa conoscenza e il mancato riconoscimento di queste differenze, una delle cause del nostro vivere male i nostri ultimi anni? Cerchiamo di rispondere. Le principali malattie che ci fanno vivere con sofferenza i nostri ultimi anni sono essenzialmente tre: le malattie cardiovascolari, l’artrosi, la demenza. Molto più dei tumori che ci spaventano tanto. Detto questo, viene da pensare che le risorse diagnostiche e terapeutiche si concentrino sull’affrontare queste malattie. Così non è.

SINTOMI DIVERSI

L’Aha (American hearth association) sottolinea come dagli anni ’70 al 2000 le malattie cardiovascolari siano diminuite negli uomini, ma non nelle donne. Nella fase acuta di infarto e accidente cerebrovascolare, nella fascia di età fino ai 75 anni, la mortalità è molto più alta per le donne. Dopo un by pass, la donna va più facilmente incontro a complicazioni e morte. Ma come mai? Sottolinea nel 2004 il Journal of Women Health: la causa principale è il “pregiudizio di genere”: la malattia coronarica è ancora stimata una malattia “maschile”. Le linee guida sulla malattia cardiovascolare sono costruite senza la presenza di donne negli studi clinici. Pochi medici ancora, e pochissime donne, hanno la consapevolezza che i sintomi dell’infarto sono diversi nelle donne: il dolore si presenta più frequentemente come un dolore gastrico, irradiato verso la schiena. Le donne si presentano più frequentemente con coronarie indenni, hanno una patologia di tipo microvascolare; le coronarie possono andare incontro a dissezione, con aritmie, rottura di cuore. Non è che le donne non vadano dal medico, anzi: ma sono meno trattate per le patologie importanti.

Statisticamente le donne sono meno sottoposte a coronarografia, ad applicazione di stent, a by-pass o Angioplastica coronarica percutanea (Ptca). Ma se si chiede ad una donna quale malattia le fa più paura: il 50 per cento risponde “il tumore al seno” e solo il 13 per cento risponde “la malattia di cuore”. Perché questo? Perché la nostra attenzione, così come le informazioni che mutuiamo dai media e dai social network, ci fanno riconoscere una nostra specificità solo appunto per la sfera produttiva. Perché le donne sono state prese in considerazione dalla scienza ufficiale per migliaia di anni solo per le differenze nei caratteri sessuali e per le malattie della riproduzione. Per questo si parla di “Sindrome del bikini”. Solo nel 1988 (in termini di ricerca scientifica significa l’altro ieri) la United States Public Health Service ha pubblicato i risultati di una analisi condotta su quanto esisteva di conosciuto sulla fisiologia femminile. Il rapporto, dopo aver analizzato le pubblicazioni delle principali riviste mediche del mondo nei precedenti tre anni, concludeva che, con l’eccezione appunto della biologia riproduttiva, quasi nessuno studio clinico includeva le donne nelle coorti studiate. Era infatti universalmente assunto che la biologia umana fosse identica in entrambe i sessi.

Gli uomini fornivano gruppi stabili, relativamente meno vulnerabili, e sicuramente meno costosi per l’investigazione clinica. I risultati erano estesi alle donne senza ulteriori modifiche o verifiche. Anche la ricerca preclinica di laboratorio era effettuata solo su animali maschi! Ricordiamo che, dopo la tragedia del Talidomide, tanto per chiudere la stalla dopo che i buoi erano scappati, nel 1977 la Food and Drug Administration americana aveva raccomandato l’esclusione delle donne in età fertile dalle fasi I e II dei trial clinici (che sono le prime applicazioni sugli esseri umani di un nuovo farmaco sperimentale). Decisione particolarmente miope, dato che così eventuali effetti sui feti erano di fatto rimandati alla commercializzazione del farmaco su vasta scala, anche se sui bugiardini era riportato “non utilizzabile in gravidanza in quanto non studiato”.

IL GAP DEI GENERI

Così dal 1990-1991, grazie anche alla spinta data da Bernardine Healy, prima direttrice donna nella storia del più importante ministero della Salute del mondo, l’United States National Institute of Health, iniziano significative e dirette indagini sulla normale fisiologia cardiaca e sulle malattie cardiovascolari nelle donne. Nel 1993 finalmente la Fda emette le linee guida, fissando le regole affinché entrambi i generi siano presi in considerazione durante le varie fasi di sviluppo dei farmaci e i risultati statistici siano valutati per genere (“Guidelines for the study and evaluation of gender differences in clinical evaluation of drugs”). Da allora comincia il difficile percorso di quella che ora chiamiamo medicina di genere: identificare le differenze e le specificità metaboliche, fisiologiche, patologiche delle donne rispetto agli uomini (e, per certe patologie come l’osteoporosi, degli uomini rispetto alle donne) in tutte le patologie e rispetto a tutte le terapie.

Sono studi che richiedono molti dati e tempi lunghi, devono essere effettuati in molte nazioni e situazioni diverse, richiedono verifiche e controlli. E investimenti. L’importante rivista Nature dal 2010 – finalmente – parla di gap dei generi, e sottolinea che non esistono ancora dati sufficienti per attuare la medicina basata su prove di efficacia (in inglese Evidence- based medicine, Ebm), cioè il processo della ricerca, della valutazione e dell’uso sistematici dei risultati della ricerca contemporanea come base per le decisioni cliniche, sulla donna in tutte le patologie. La stessa rivista Nature, nel marzo 2014, sottolinea che la ricerca deve riprendere in mano il genere

LE DIFFERENZE NELLE STESSE PATOLOGIE

Quali sono le principali informazioni che sono già disponibili, sulla base degli studi fino a qui condotti, sulle differenze tra donne e uomini nelle stesse patologie? Abbiamo già accennato alle malattie di cuore. Preme sottolineare ancora che per gli uomini le cause di morte sono: 33 per cento circa le malattie cardiovascolari, 33 per cento circa I tumori, il restante terzo è suddiviso tra tutte le altre cause (traumi, malattie respiratorie). Mentre per le donne la proporzione è la seguente: il 50 per cento, una su due, muore per malattie cardiovascolari, il 25 per cento una su 4, per tumore, il restante 25 per cento per tutte le altre cause. Ma se una donna è diabetica? Il diabete è malattia in netto aumento. Due donne diabetiche su tre muoiono per malattia cardiovascolare, sono quindi ad altissimo rischio. Eppure il diabete femminile è meno controllato, molto più difficilmente si raggiungono livelli accettabili di glicemia e si riesce a perseguire uno stile corretto di vita.

Il compenso della glicemia, e uno stile di vita corretto, è raggiunto molto più facilmente dagli uomini. Ma quali sono i motivi reali di queste differenze: se si cerca di analizzarli, ci si accorge di inoltrarsi nei differenti ruoli che la società pone e impone alle donne, tra cui quello delicato, solitario e pesante del care giver. L’80 per cento dei care giver sono donne: occupandosi degli altri non si occupano di se stesse. Il peso psicologico e fisico, lo stress collegato a questo ruolo, comporta alterazioni del metabolismo e riduzione delle difese immunitarie: da cui un incremento sia delle sindromi metaboliche, e un peggior controllo del diabete, sia delle patologie tumorali dovute all’abbassamento delle difese. Un breve accenno ai tumori: tutti i programmi di prevenzione sono incentrati sull’obiettivo – giusto e condiviso – di ridurre la morbilità e mortalità dei tumori del seno e dell’utero, e ci stanno riuscendo. Ma attualmente il vero killer delle donne non è il tumore al seno, è il tumore del polmone. La mortalità per questo tumore è in riduzione in tutti i paesi industrializzati per gli uomini, in netto aumento invece per le donne. La differenza tra uomini fumatori e donne fumatrici, che era quasi del 60 per cento nel 1957, è nel 2011 ridotta al 4 per cento, cioè oramai le donne fumano come gli uomini: tra gli adolesenti, fumano di più le ragazze che non i ragazzi. Inoltre: c’è un incremento significativo dell'incidenza di tumori polmonari nelle donne non fumatrici rispetto agli uomini non fumatori.

Perché questa differenza, a nostro pesante svantaggio? Forse per una diversa sensibilità ad inquinanti ambientali o professionali, per fattori legati alla dieta, al metabolismo dei cancerogeni nell’organismo femminile, al ruolo degli estrogeni, alle capacità di riparazione del Dna, a differenze nella proliferazione e crescita cellulare.Tutte queste domande, prive al momento di una risposta precisa, ci dicono quanto sia indispensabile potenziare la ricerca di genere. Uno degli scogli più grandi rimane ancora il pregiudizio di genere: il tumore al polmone è ancora sentito “patologia maschile”, i sintomi clinici iniziali nelle donne spesso sono più sfumati (una tosse secca stizzosa, dovuta ad una più frequente localizzazione periferica della massa tumorale, che viene interpretata inizialmente come reflusso gastrico – stress – patologia faringotracheale con conseguente ritardo diagnostico, che è una delle cause della maggiore mortalità femminile). Manca il tempo e lo spazio per affrontare tante altre differenze, alcune già studiate a fondo, come la diversa sensibilità ai farmaci nelle donne. Questo primo contributo può però avviare un processo di coscienza e di conoscenza della fondamentale importanza di riconoscere e studiare le differenze tra i generi, avviare un processo di formazione su di esse, modificare poco per volta, grazie alle certezze acquisite tramite la ricerca, libri di testo e linee guida, e soprattutto attuare una programmazione sanitaria corretta.

*Direttore scientifico del primo corso di Medicina di genere realizzato presso l'Ordine dei medici di Torino, socia del Centro studi nazionale Salute e medicina di genere