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(Quinta puntata del nostro viaggio tra coronavirus e scrittori)
Per chi scrive e sta, metti, concentrato su qualcosa che lo interessa, un groppo di temi su cui riflettere, cose su cui documentarsi, quella del virus è soprattutto un’irruzione che si subisce a livello mentale, perché il dualismo ultimativo vita/morte spazza via tutti gli altri temi, rendendoli marginali. Le idee su cui stavo lavorando improvvisamente si sfarinano, il pezzo che stavo rifinendo diventa inutile, lo porto avanti per inerzia perché è quasi a posto, altrimenti lo abbandonerei.
L’auto-committenza, che caratterizza il lavoro di gran parte degli artisti contemporanei, è come se venisse meno. Con la mente occupata da pensieri ultimi e l’orecchio teso al flusso incessante dell’informazione sulla pandemia, con la città che si chiude e non ti chiama più a distrazione fruizione esplorazione, con gli incontri amicali che si diradano, è difficile assegnarsi dei compiti e tenere duro sull’auto-disciplina necessaria a questo lavoro.
Se mancano stimoli attenzione e nutrimento, semplicemente si smette di scrivere.
Fortunatamente ancora ricevo una pensione che mi permette di vivere, ma in questi giorni sono solidale con quel titolare di una ditta di catering che racconta dei suoi ordini calati del 100%: gli “eventi” cui prestava i suoi servizi, diventando dannosi, hanno anche rivelato la loro marginalità.
Ci difendiamo amputando la vita associata. La cosa è come se si riflettesse nella mia testa. In questa fase la scrittura, da centrale che poteva parermi sino a due settimane fa, sta calando in uno stato secondario. Come tutti, mi domando se e quando questa strana vicenda collettiva finirà. E se, vista la mia età, ne uscirò vivo.
GLI INTERVENTI PUBBLICATI:
SARCHI | BIONDILLO | GINZBURG | TARGHETTA
Le parole che servono, D.Orecchio