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Uno sguardo al ruolo delle donne nel mercato del lavoro italiano. E, soprattutto, a quale apporto potrebbero dare se l’Italia affrontasse seriamente il tema delle disuguaglianze di genere. Se ne occupano i ricercatori dell’Almanacco dell'economia Cgil ricordando che "in Italia le donne sono più degli uomini, hanno un’aspettativa di vita più lunga e possono contare su un miglioramento significativo della loro presenza nei vertici politici, istituzionali e delle organizzazioni sociali, anche a seguito della mobilitazione delle donne e dell'impegno costante della Cgil".
Eppure – sottolinea l’Almanacco (scarica qui l’allegato) - ancora è lungo il cammino per l’uguaglianza di genere nelle opportunità occupazionali e salariali – e di conseguenza anche pensionistiche – considerando soprattutto le maggiori difficoltà causate alle donne dalla precarietà nel lavoro, dalla minore continuità lavorativa nell'arco di vita e gli ostacoli alla progressione della carriera, dalle enormi difficoltà di conciliazione tra vita familiare e contesto lavorativo, acuite dalle mancanze dei servizi.
Diverse fonti, anche istituzionali, spesso hanno elaborato modelli di calcolo econometrico capaci di simulare la crescita di un paese nell’ipotesi di un maggiore e migliore impiego delle risorse femminili, in particolare, dal punto di vista occupazionale. La Banca d’Italia, in uno studio del 2013, sostiene che «un maggiore accesso femminile al mercato del lavoro, che ne innalzasse il tasso di occupazione all’obiettivo di Lisbona (60 per cento) si assocerebbe “meccanicamente” a un Pil più elevato del 7%». Il Pil italiano, nonostante la modesta variazione positiva (1%), nel 2016 si trova esattamente 7 punti sotto il livello pre-crisi (2007).
La crescita potenziale in caso di uguaglianza di genere, dunque, viene calcolata immaginando che il sistema economico-produttivo disponga di un numero di posti di lavoro in cui impiegare donne in età di forza lavoro (15-64 anni) analogo a quelli degli uomini occupati nello stesso periodo. Se, invece, utilizzando l’indagine Istat sulle forze di lavoro, si parte dal numero di occupati di genere maschile e si ipotizza di colmare la forbice occupazionale femminile (-28,3%), il contributo in termini di posti di lavoro potenziali ammonterebbe a oltre 10 volte il differenziale di occupati dicembre 2016–dicembre 2007.
Lo stesso ragionamento vale per il tasso di disoccupazione: se in Italia si attivassero e si creassero tanti posti di lavoro per le donne quanti oggi ce ne sono per gli uomini (in termini di volume occupazionale), il tasso di disoccupazione generale scenderebbe di oltre 6 punti percentuali, addirittura sotto il livello pre-crisi (dall’11,9% al 5,8%).
Naturalmente, per chiudere il gap e raggiungere tali risultati macroeconomici, sia in termini occupazionali che di incremento del Pil, potrebbero occorrere periodi più lunghi di quelli confrontati (non un mese o un anno), ma di sicuro inferiori a quelli trascorsi dall’inizio della crisi senza mai recuperare i livelli precedenti.
Una delle statistiche più importanti – conclude l'Almanacco dell'economia – riguarda il differenziale salariale fra uomini e donne. Secondo un’indagine Istat del 2016, il gap fra le retribuzioni medie lorde orarie dei lavoratori e quello delle lavoratrici femmine nel settore privato è pari al 12,2 per cento. Per la prima volta dal 2014, il tasso di variazione delle retribuzioni di fatto torna negativo (-0,1) nell’ultimo trimestre 2016, nonostante la variazione positiva delle retribuzioni contrattuali, benché in linea con la deflazione registrata in corso d’anno. Se, però, venisse compensato il divario salariale di genere le retribuzioni nominali aumenterebbero di 5,5 punti percentuali, più del doppio del tasso di variazione che occorrerebbe per ripristinare il ritmo di crescita dei salari di fatto negli anni pre-crisi (2,6 per cento).
L’Europa e il mondo: per approfondire il ruolo delle donne
Le donne rifugiate o migranti nei paesi Ue hanno molti più problemi dei loro omologhi maschili a trovare un lavoro, a integrarsi nella società e partecipare attivamente alla vita civile. Il gender gap tra rifugiati e migranti è molto più ampio che tra i cittadini nati nella Ue. È quanto emerge dallo studio del Ceps Gender Inequality and Integration of Non-EU Migrants in the EU. L’analisi è segnalata nel report settimanale di Specchio Internazionale, la rassegna a cura dell'Osservatorio economico e finanziario area politiche di sviluppo della Cgil (si può leggere qui in allegato).
Ma non è l’unico report segnalato: si possono approfondire scenari e tendenze grazie alla documentazione sulle strategie di engagement dell’Unione europea a favore dell’uguaglianza di genere, o sulle condizioni globali delle donne nei luoghi di lavoro riportate dall’Oil e da uno studio del McKinsey Global Institute. Spazio anche agli approfondimenti sul gender gap curati da Eurostat, Banca mondiale e Forum economico mondiale.