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Il nuovo disordine mondiale. Ha un titolo per certi aspetti profetico, essendo stato deciso – con tutta evidenza – in largo anticipo rispetto alla strage di Parigi dello scorso venerdì, il Rapporto sui diritti globali 2015. Giunto alla sua tredicesima edizione, lo studio – promosso dalla Cgil, con la partecipazione di ActionAid, Antigone, Arci, Cnca, Fondazione Basso, Forum Ambientalista, Gruppo Abele e Legambiente, e curato dall’Associazione società informazione Onlus – sarà presentato oggi (17 novembre) a Roma, alle 11, nella sede della Cgil nazionale, nell’ambito di una conferenza stampa a cui parteciperanno Danilo Barbi, Paola Bevere, Francesca Chiavacci, Don Luigi Ciotti, Marco De Ponte, Maurizio Gubbiotti, Ciro Pesacane, Sergio Segio, Gianni Tognoni, Don Armando Zappolini.
La struttura del rapporto è articolata, anche per l’attuale edizione, in capitoli tematici, suddivisi in una panoramica generale e in focus di approfondimento su alcune delle problematiche più rilevanti dell’anno che si sta concludendo. L’analisi e la ricerca sono corredate come sempre da cronologie dei fatti, dati statistici, riferimenti bibliografici e tratti dal web.
Un mondo senza rifugi
Nel tempo della globalizzazione neoliberista e della crisi strutturale, osservano i curatori dello studio, il mondo appare senza più rifugi: né dalle turbolenze dei mercati, come si vede dalle difficoltà crescenti che colpiscono anche la Cina e i Brics; né dalla destabilizzazione geopolitica, come dimostrano il proliferare dei conflitti territoriali e la nuova guerra fredda che si intreccia agli scenari, vecchi e nuovi, propriamente bellici; né dalla “obsolescenza programmata” dei sistemi di welfare, a partire dal modello sociale europeo da tempo sotto attacco, e delle forme e strutture democratiche di governo; né, infine, dagli effetti delle guerre e delle diseguaglianze, che nel 2015 si sono tradotti in un vero e proprio esodo, di fronte al quale l’Europa e le sue istituzioni si sono mostrate in tutta la loro fragilità, divisione, impotenza.
Un esodo che, a novembre 2015, ha già prodotto, nel solo Mediterraneo, oltre 3.400 vittime, tra le quali un numero crescente di bambini. Nel settembre scorso, l’immagine del piccolo bimbo Alan Kurdi, in fuga con la sua famiglia dalla guerra in Siria, annegato e riverso su una spiaggia turca, ha commosso il mondo solo per un breve istante. Tanti come lui sono morti dopo e continuano a morire senza lasciare traccia, senza destare scandalo e ripensamenti nelle politiche globali e nella chiusura delle frontiere.
Il numero delle persone sradicate – sfollati interni o rifugiati – è arrivato a 59 milioni e mezzo di persone; un numero cresciuto, solo nel 2014, di oltre 8 milioni, la cifra più elevata dalla Seconda guerra mondiale. La pressione migratoria che ha messo in questi mesi in difficoltà l’Europa è, peraltro, solo una piccola parte di quella dolente massa umana, giacché il peso principale viene sostenuto dai paesi cosiddetti in via di sviluppo, che accolgono ben l’86% dei 19 milioni e mezzo di rifugiati. Eppure, il 2015 è stato l’anno dei nuovi muri, delle barriere di filo spinato erette nel cuore del continente europeo, a tentare di isolare il contagio dai dannati della terra, cui è dedicato uno dei focus del rapporto.
La guerra contro i poveri
La “lotta di classe dall’alto” nell’ultimo anno, in diverse aree geografiche, ha preso la forma di una guerra contro i poveri e di un divorzio progressivo tra capitalismo globale e democrazia. Secondo le statistiche europee, nell’Unione vi sono 122,6 milioni di persone a rischio di povertà ed esclusione, vale a dire quasi un europeo su quattro; all’inizio della crisi erano 116 milioni. Alcuni Stati membri hanno percentuali ancor più drammatiche, come la Bulgaria (48%), la Romania (40,4%), la Grecia (35,7%), l’Ungheria (33,5%); a fronte di percentuali tra il 15 e il 16% di Paesi come Svezia, Finlandia, Olanda e Repubblica Ceca. L’Italia registra il 28,4%, dato superiore alla media europea, per un totale di 17 milioni e 330 mila persone.
A fronte di questo drammatico ed eloquente quadro, nel quadriennio 2008-2012 – complessivamente, sebbene in modo molto differenziato tra i diversi Stati membri – l’Europa ha disinvestito nel welfare, in ossequio agli imperativi dell’austerità e del Fiscal compact, con un taglio sulla spesa sociale per un ammontare totale di circa 230 miliardi di euro. Disinvestire nel welfare ha anche favorito la tendenza a distribuire i rischi di impoverimento in modo selettivo e diseguale, gravando soprattutto sui più deboli, e questo è uno dei meccanismi che porta a condizioni di povertà stabili, prolungate e difficilmente reversibili.
Anziché essere contrastata, insomma, la crescente povertà – che riguarda sempre più anche chi possiede un lavoro e un reddito – viene perpetuata, diviene una condizione non transitoria, una sorta di buco nero sociale dove le povertà diventano a bassissima reversibilità, nel quale è sempre più facile scivolare e da cui è – e sarà – praticamente impossibile uscire. Sempre più la povertà, specie se estrema, nelle risposte istituzionali, ma anche nel senso comune, è vista e trattata come crimine, anziché come situazione necessitante sostegno. Un processo, presente da tempo negli Stati Uniti, che sta andando avanti in modo deciso in tutta Europa, a livello legislativo, amministrativo, del governo delle città, mediatico. Alla criminalizzazione della povertà è dedicato un altro dei focus del rapporto 2015.
L’oscena piramide della diseguaglianza
Anche nell’ultimo anno, le politiche seguite non sono andate nel verso di sostenere le parti sociali più deboli e il lavoro e nel ridurre le diseguaglianze, ma all’opposto hanno premiato i responsabili della crisi stessa, vale a dire la grande finanza. Dal 2007 le banche centrali di tutto il mondo hanno aumentato la quantità di moneta da 35 mila miliardi di dollari a 59 mila miliardi. Un mare di liquidità che ha inebriato i mercati finanziari, ma non è “sgocciolato” a sostenere l’economia precaria delle famiglie e delle piccole imprese, mentre è continuata la sciagurata politica dell’austerity, pur in presenza dei suoi effetti devastanti e deprimenti.
Una politica che, nel corso del 2015, ha manifestato appieno la propria valenza simbolica, disciplinante e intimidatoria nel caso della Grecia, il cui popolo e il cui legittimo governo sono stati piegati da un pesante e stringente ricatto, come viene ampiamente analizzato nel focus del primo capitolo del nuovo rapporto. Non solo. Un anno di rialzi in borsa e di grande euforia finanziaria ha visto il contrappasso di un’altrettanto grande depressione economica e sociale. La crisi è così diventata strumento di governo e moltiplicatrice dell’instabilità. E di ingiustizia sociale. Come mostrano indiscutibilmente i numeri e gli studi internazionali. La ricchezza delle 80 persone più facoltose al mondo è raddoppiata in termini nominali tra il 2009 e il 2014, mentre la ricchezza del 50% più povero della popolazione nel 2014 è inferiore a quella posseduta nel 2009.
E ancora: ottanta super-ricchi possiedono la medesima quantità di ricchezza del 50 per cento più povero della popolazione mondiale, tre miliardi e mezzo di persone. Nel 2010 le 80 persone più ricche al mondo godevano (è il caso di dirlo) di una ricchezza netta di 1.300 miliardi di dollari. Nel 2014 la loro ricchezza complessiva posseduta era salita a 1.900 miliardi: una crescita, dunque, di 600 miliardi di dollari, quasi il 50 per cento in più in soli quattro anni.
Il cibo come palcoscenico oppure come diritto
Il titolo scelto per l’Expo 2015 ha posto il tema del cibo all’attenzione mondiale. Ma ha sostanzialmente eluso la riflessione e l’analisi sul modello attuale della produzione e del consumo alimentare e sui rischi futuri, accentuati dai trattati commerciali in corso, orientati agli interessi delle grandi corporation e favoriti dal grande investimento che viene fatto per promuovere il lobbismo, a tutto danno della correttezza e trasparenza delle decisioni politiche e dei diritti di cittadini e consumatori. Basti dire che nel 2013, solo negli Usa, il settore finanziario ha speso oltre 400 milioni di dollari per fare lobby, mentre nell’Unione europea la cifra stimata è di 150 milioni di dollari.
Sulla questione alimentare si confrontano, anzi si scontrano, due paradigmi: l’agricoltura delle multinazionali, che si appropriano di intere regioni mondiali e le avvelenano con uso intensivo di pesticidi e fertilizzanti, cercando di imporre ovunque anche gli Organismi geneticamente modificati, e quella dei piccoli contadini, che coltivano nel rispetto dell’ecosistema e delle biodiversità. L’agricoltura industriale, pur producendo solo il 30% del cibo consumato a livello mondiale, viceversa, è responsabile del 75% del danno biologico a carico del pianeta, compresa l’emissione, attraverso l’impiego di combustibili fossili, del 40 per cento dei gas serra, causa di quel riscaldamento climatico che sta devastando e desertificando i territori e pregiudicando il futuro del pianeta e delle prossime generazioni.
Anche quella per il cibo, e per l’acqua, insomma, è diventata una forma di guerra contro interi popoli, vittime di forme, vecchie e nuove, di colonialismo; come anche il cosiddetto land grabbing, il crescente fenomeno di accaparramento delle terre. Popoli la cui qualità di vita e la stessa sopravvivenza sono compromesse da logiche unicamente orientate al massimo profitto e alla speculazione finanziaria. Logiche che, tuttavia, non riguardano più solo i Sud del mondo, ma gli stessi paesi industrializzati e, in primis, l’Europa, al centro dei grandi interessi soggiacenti al Transatlantic trade and investment partnership (Ttip), il Trattato commerciale di libero scambio le cui trattative segrete sono in corso tra Usa e Unione europea, cui è dedicato un altro dei focus del Rapporto sui diritti globali 2015.