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Mercoledì 20 maggio compie 45 anni lo Statuto dei Lavoratori, la legge 300 del 1970. Il suo nome per esteso recita: “Norme sulla tutela e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”. Una legge fondamentale per la salvaguardia dei diritti nei luoghi di lavoro, e per decenni testo di riferimento per la giurisprudenza, che arriva però al suo 45mo anniversario “ammaccato” dalle ultime leggi (Fornero, Jobs Act) che hanno di fatto svuotato la tutela in caso di licenziamento illegittimo garantita dall'articolo 18. Se il Jobs Act ha fatto fare un passo indietro al paese sul fronte del lavoro, riportando la situazione per molti versi a una condizione pre-Statuto, aumenta la spinta, soprattutto da parte della Cgil, per l'elaborazione di un nuovo Statuto che tuteli tutti i lavoratori (leggi qui).
1952, la proposta della Cgil guidata da Giuseppe Di Vittorio
Ma facciamo un passo indietro. Venne proprio dalla Cgil, allora guidata da Giuseppe Di Vittorio, la prima proposta per l'elaborazione di uno Statuto. L'Italia era uscita da poco dal dopoguerra. Come ha scritto Mario Giovanni Garofalo su Rassegna, «la proposta di uno Statuto dei diritti dei lavoratori fu formulata dalla Cgil per la prima volta, a pochi anni di distanza dalla promulgazione della Costituzione e immediatamente dopo la scissione sindacale, nel congresso di Napoli del 1952. Era una proposta aperta, se si vuole tecnicamente grezza, ma l’idea di fondo era sufficientemente precisa, ben riassunta nello slogan “la Costituzione nelle fabbriche”. Il testo costituzionale, infatti, pur proclamando importanti principi di libertà, non aveva innovato l’assetto giuridico effettivo dei rapporti individuali e collettivi di lavoro in modo tale da costituire una trincea sufficientemente solida per difendere i lavoratori nella difficilissima situazione che si era venuta a creare negli anni 50 del XX secolo ».
Prendendo la parola al congresso del '52, Di Vittorio spiegava:
«Il lavoratore è un uomo, ha una sua personalità, un suo amor proprio, una sua idea, una sua opinione politica, una sua fede religiosa, e vuole che, questi diritti siano rispettati da tutti e, in primo luogo dal padrone (…) perciò sottoponiamo al Congresso un progetto di “Statuto” che intendiamo proporre, non come testo definitivo, alle altre organizzazioni sindacali (…) per poter discutere con esse e lottare per ottenerne l’accoglimento e il riconoscimento solenne».
1969, Brodolini raccoglie la sfida
Bisognò attendere quasi vent'anni perché la proposta si realizzasse, mentre l'Italia si industrializzava, abbandonava il suo volto agricolo, mentre il conflitto sociale (nelle fabbriche, nelle lotte studentesche) andava esasperandosi, mentre il paese entrava negli anni della tensione, con le prime stragi di Stato (quando nel 1970 entrò in vigore lo Statuto dei lavoratori, erano trascorsi appena cinque mesi dalla bomba di piazza Fontana).
La proposta di Di Vittorio fu raccolta nel 1969 dal ministro del Lavoro socialista Giacomo Brodolini, ex vicesegretario della Cgil. Brodolini faceva parte del secondo governo guidato da Mariano Rumor, il quale, insediandosi alle Camere, spiegava nel suo discorso programmatico: «Prioritario il governo considera l’impegno a definire in via legislativa, indipendentemente e nella garanzia della libera attività contrattuale delle organizzazioni sindacali, e con la loro consultazione, una compiuta tutela dei lavoratori nelle aziende produttive di beni e servizi che assicuri dignità, libertà e sicurezza nei luoghi di lavoro, con particolare riferimento ai problemi della libertà di pensiero, della salvaguardia dei lavoratori singoli e della loro rappresentanza nelle aziende e delle riunioni sindacali nell’impresa» (approfondisci qui la figura di Brodolini e quei frangenti).
Gino Giugni, all’epoca giovane capo della commissione di esperti che Brodolini portò con sé al ministero, racconta nella sua “La memoria di un riformista”: «Sembrava quasi aver fretta di portare a termine il suo compito. Riuscì a realizzare tre importanti obiettivi: la mediazione nella vertenza sulle cosiddette gabbie salariali, che favorì un accordo tra Cgil, Cisl e Uil e Confindustria sull’unificazione progressiva dei salari nel paese; una riforma delle pensioni che ancorando la pensione all’80% delle ultime retribuzioni ebbe effetti duraturi e venne modificata solo con Amato nel 1992», e, infine, lo Statuto dei lavoratori.
Brodolini era gravemente malato (questo spiegava la sua fretta) e non riuscì a vedere lo Statuto diventar legge (l'iter del provvedimento fu seguito dal suo successore, Donat Cattin). Il ministro, però, in quei mesi straordinari riuscì a indirizzare il lavoro della Commissione, affidando - come detto - allo stesso Giugni la guida del progetto. Il 20 giugno 1969 il Consiglio dei ministri approvò il testo e diede così inizio al cammino parlamentare del disegno di legge “sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro”. Quello che sarebbe diventato, un anno dopo, lo Statuto dei lavoratori, ossia la fonte normativa più importante, dopo la Costituzione, in materia di libertà e attività sindacale. Il testo che in 41 articoli, divisi in 6 titoli, tutela la libertà e la dignità del lavoratore, la libertà e l'attività sindacale, e contiene norme sul collocamento e disposizioni penali.
Brodolini morì pochi giorni dopo quel Consiglio dei ministri del '69.
La legge
Come ricorda ancora Garofalo, «il dibattito parlamentare fu ampio e fecondo: lo Statuto, nella sua versione finale, rimase, in primo luogo, uno strumento di promozione dell’esperienza sindacale che si era andata formando in quegli anni nel vuoto lasciato dalla mancata attuazione dell’articolo 39. Il modello che informa la legge è quello di un sindacato che fa della fabbrica il luogo centrale della sua azione. Del disegno governativo rimane anche la parità tra i sindacati maggiormente rappresentativi – in primo luogo le grandi confederazioni – così prefigurando l’assetto del Patto federativo tra Cgil, Cisl e Uil del 1972 con il quale la prima confederazione riconosceva come pari a sé le altre due nonostante la propria maggiore consistenza organizzativa, in cambio della rinuncia di queste ad accordi separati. Il sostegno all’attività sindacale nei luoghi di lavoro si accompagna anche al rispetto delle forme organizzative che il sindacato sceglie di darsi: nell’articolo 19, infatti, il legislatore non prescrive questa o quella forma di organizzazione nei luoghi di lavoro; attribuisce i diritti del titolo III alle rappresentanze sindacali aziendali che abbiano due requisiti: siano costituite a iniziativa dei lavoratori e siano in qualche modo – non si precisa quale – collegate con almeno uno (ma anche più di uno: articolo 29) dei sindacati esterni maggiormente rappresentativi. Ciò consente che le misure di sostegno siano attribuite a organismi separati, ma anche a organismi unitari; alle vecchie Commissioni interne ma anche ai Consigli di fabbrica che allora si andavano formando; consente di non avere difficoltà ad attribuirle, oggi, alle Rappresentanze sindacali unitarie».
Altri elementi significativi: il riconoscimento della libertà di manifestazione del pensiero anche nei luoghi di lavoro (articolo 1); la regolamentazione del potere disciplinare (articolo 7); il divieto di indagini sulle opinioni del lavoratore (articolo 8); il diritto dei lavoratori di intervenire in materia di sicurezza ed ambiente di lavoro (articolo 9); il diritto allo studio (articolo 10); una penetrante limitazione del potere di variare le mansioni, a difesa della professionalità del lavoratore (articolo 13); il divieto di atti discriminatori (articoli 15 e 16). «Rimane – prosegue Garofalo - anche la forte tensione verso l’effettività della nuova normativa e l’adozione di nuove tecniche giuridiche per garantirla: prime tra tutte, la previsione dell’obbligo di reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato (articolo 18) e quella – ripresa dall’esperienza della legislazione sindacale nordamericana – della repressione della condotta antisindacale (articolo 28)».
La legge n. 300 fu approvata a maggio del 1970, con l'astensione del Partito Comunista che, pur apprezzando la garanzia dei diritti costituzionali prevista per i lavoratori sul luogo di lavoro, lamentava l'esclusione delle tutele per i lavoratori delle aziende più piccole.
Pizzinato: cosa cambiò allora
«Posso dirti cosa cambiò per me – ricorda Antonio Pizzinato in un'intervista a Rassegna - che allora, dopo l’esperienza delle Commissioni interne, ero responsabile di zona a Sesto e nella segreteria provinciale della Fiom milanese. Contrattammo immediatamente con le quattro grandi fabbriche (Falck, Breda, Magneti Marelli ed Ercole Marelli) e le altre 130 medio piccole aziende l’applicazione dello Statuto, eleggemmo in pochi mesi 1.133 delegati che, riuniti in assemblea nel palazzo comunale di Sesto alla presenza di Bruno Trentin, elessero il Comitato direttivo ed esecutivo del Sum, vale a dire il sindacato unitario dei metalmeccanici, la cui sede fu offerta dal Comune. Dunque, facemmo diventare, anticipando la futura Flm, quei comitati aziendali spontanei nati nell’autunno caldo organismi eletti dai lavoratori con voto segreto, su scheda bianca o su liste, a seconda degli accordi conclusi in fabbrica. Ma c’è un altro tema che a Sesto San Giovanni, a Corsico e in generale in Lombardia riuscimmo a sviluppare, quello dell’ambiente e della sicurezza del lavoro. Nei primi anni Settanta, a seguito delle nostre lotte e del rapporto stabilito con gli studenti di Medicina del Movimento studentesco e con la Clinica del lavoro di Milano, arrivammo a costituire gli Smal, Servizi di medicina del lavoro, organismi pubblici diffusi sul territorio. Rispetto all’articolo 9 dello Statuto si fece un passo in avanti che anticipava la riforma del servizio sanitario, stabilendo che i servizi sanitari devono comprendere anche quelli per la sicurezza e la salute. Tieni presente che allora si aveva una media di 7- 8 infortuni mortali al giorno, oggi ridotti a 3, e che a fine anni ’80 il numero d’invalidi del lavoro era superiore a quello determinato dalla seconda guerra mondiale».
Cosa è cambiato oggi
Lo Statuto in questi anni ha subito profondi cambiamenti. A cominciare dalle modifiche all'articolo 19. L'articolo fu sottoposto a referendum abrogativo nel 1995, e riscritto nella forma attuale: «Rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva, nell'ambito delle associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell'unità produttiva»; così da non privilegiare le associazioni confederali rispetto ai sindacati di categoria.
Ma l'articolo più attaccato è stato l'articolo 18, il quale, col prescrivere la «reintegrazione sul posto di lavoro» in caso di licenziamento illegittimo, rivoluzionò la normativa in materia di licenziamenti individuali. La tutela dal licenziamento, così come prescritta dall'articolo 18, è “sopravvissuta” per oltre 30 anni, superando gli attacchi dei governi Berlusconi, la legge Maroni e le modifiche tentate dal suo successore Sacconi. Solo il governo dei tecnici guidato da Mario Monti, e in seguito l'esecutivo Pd a guida Matteo Renzi, hanno portato quelle modifiche (veri e propri stravolgimenti) mai riuscite alla destra. Nel 2012 con la legge 92 (legge Fornero), il risarcimento per ogni licenziamento valutato illegittimo non è più esclusivamente il reintegro tout court del posto, ma si introducono, in alcuni casi, nuove possibilità, tra cui un risarcimento economico. Il Jobs Act di Renzi, infine, col contratto di lavoro a tutele crescenti, archivia l'articolo 18 per i rapporti di lavoro stipulati a partire dal primo marzo 2015 (vedi le nuove norme in questa infografica). La tutela resta in vigore invece per gli assunti prima di quella data e con i requisiti richiesti.
Lo scontro, però, non finisce qui. Non solo c'è la proposta della Cgil di un nuovo Statuto. Ma in diverse aziende si vanno firmando contratti “migliorativi” che non prevedono l'applicazione del Jobs Act (come ad esempio alla Novartis). Il sindacato, come spiega quest'articolo su quanto si sta facendo in Emilia Romagna, punta a disattivare gli aspetti peggiori del Jobs Act attraverso la contrattazione territoriale e aziendale; e, così facendo, mira a tenere vivi i principi e le regole dello Statuto.
Perché ci sono epoche di riforme, come quella che portò allo Statuto. E ci sono epoche di resistenza, come questa.