Una delle ultime volte che l’avevo incrociato, Mario Dondero aveva confessato l’intenzione di tornare in Irlanda per finire un lavoro cominciato anni fa. Doveva andarci in nave, dopo essersi fermato nell’amata Parigi, come a scrollarsi di dosso il peso delle quasi novanta primavere. Aveva voglia di muoversi perché “nella provincia italiana rischio di impigrirmi”, diceva, nonostante avesse trovato una dimensione ideale di vita a Fermo, la sua quinta città d’elezione dopo la natìa Genova, la Milano degli esordi, Roma e Parigi.

Nella cittadina marchigiana si era trasferito di proposito, con la moglie francese Annie, assistente dello storico Fernand Braudel, innamoratasi della splendida biblioteca e del mappamondo settecentesco che l’abbellisce. Ci era rimasto pure dopo la morte di quest’ultima, con la compagna Laura Spacca che l’ha assistito fino all’ultimo e circondato da un cenacolo intellettuale di prim’ordine, del quale era il perno e l’ispiratore. Ma rimaneva sempre pronto a partire per uno dei suoi proverbiali viaggi, da ultimo persino nell’Andalusia profonda, ancora una volta, caparbiamente, per dimostrare che “Il miliziano morente” della celebre foto di Robert Capa era davvero esistito e non si trattava di una controfigura. A chi sosteneva il contrario, era subito pronto a opporre testimonianze raccolte direttamente, pure se, era la sua opinione, nessuna rivelazione avrebbe potuto togliere a quello scatto il suo valore simbolico. Era convinto che si fosse trattato di uno scatto casuale: Capa, rintanato in una trincea, aveva alzato la macchina fotografica e scattato senza guardare, mentre attorno fischiavano le pallottole.

Scompariva e riappariva, Mario Dondero, “inafferrabile e ubiquo”, come lo ha definito Ermanno Rea nel bel documentario di Marco Cruciani “Calma e gesso”. Quando pensavi di trovarlo, come il giorno in cui a Fermo fu consegnato il premio Volponi allo scrittore di “Mistero napoletano”, suo vecchio amico dell’epoca milanese, al pari di Corrado Stajano, accadeva che se ne fosse andato a Pordenone per l’ennesima mostra su Capa. Era capace di ogni cosa pur di seguire il suo istinto anarchico, anche di lasciare il Festivaletteratura di Mantova per una serata con i compagni dell’Anpi del Polesine. Viceversa, era capace di sorprenderti con gesti di incredibile generosità.

Difficile dimenticare, per chi scrive, la sera in cui presentò “Il trombettiere di Custer e altri migranti” (appena pubblicato per Ediesse), non limitandosi a parlarne ma prendendo ad acquistarne copie e a regalarle in giro. Finiremo così per programmare reportage in giro per l’Italia e persino un libro rimasto nel limbo delle buone intenzioni. Sulle tracce di Robert Capa nel Sud Italia (alla vigilia di una importante operazione dalla quale si riprenderà brillantemente), ci troveremo a condividere una strampalata avventura testimoniata da una galleria di immagini e una storia pubblicata sulla rivista “Il Reportage”.

A consegnare Mario Dondero alla storia del fotogiornalismo sarà in particolare uno scatto: quello che ritrae insieme per la prima e unica volta, davanti alla redazione parigina (zona Saint Germain des Prés, in piena rive gauche) delle mitiche Editions de minuit, Nathalie Sarraute, Alain Robbe-Grillet, Claude Mauriac, Claude Simon, Jerome Lindon, Robert Pinget, Claude Ollier e l’inafferrabile Samuel Beckett. Non è difficile immaginare che abbia fatto come centinaia di altre volte nella sua vita: li ha raggruppati insieme e poi ha scattato. Solo che quell’immagine darà un volto al movimento letterario del nouveau roman, come il miliziano morente di Capa lo farà per la guerra di Spagna.

È la sua foto più famosa, quella di cui amerà parlare meno. Di molte altre conosciamo dettagli, aneddoti e quisquilie. Pure di quelle abortite. Ad esempio, raccontava che dopo aver immortalato Beckett davanti alla casa editrice, era andato a bussare alla sua abitazione per ottenere un ritratto, ma non rispose mai nessuno. Dondero fotografava e le immagini potevano apparire pure dopo anni. “Se ti faccio vedere la foto che ti ho fatto in questo momento, essa non avrà alcun valore. Non le tiro fuori mai prima che siano trascorsi dieci anni”, diceva. Chi e quanti soggetti immortalati nell’ultima decade saranno ritrovati postumi nel suo sterminato e disordinato archivio?

Non accadeva lo stesso per i servizi destinati ai giornali. Dopo una selezione certosina, alle redazioni veniva recapitata una storia completa per immagini e a volte anche corredata di suoi reportage scritti. Accadeva negli anni 50 e 60, quando Dondero da buon fotoreporter scriveva e fotografava allo stesso tempo per i grandi settimanali dell’epoca, da “Le ore” a “Tempo illustrato”. Sono le storie che il grande fotografo amava raccontare più degli scatti che lo avevano reso famoso: dai diffusori dell’Unità in Emilia Romagna ai tori toscani che gli valsero una chiacchierata con Fidel Castro sulla zootecnia in Italia. La raccontava divertito, fiero di come uno dei suoi servizi meno noti potesse aver ispirato un pizzico di revoluciòn.

Amava ricordare pure gli esordi, da cronista alla “Notte” di Milano e in seguito con un documentario per la tv svedese sui comunisti dell’Emilia Romagna. A quei tempi, Luciano Bianciardi lo annoverava tra i giovani frequentatori del bar Jamaica, ritrovo di intellettuali nella Milano del boom economico, che vestivano à la Capa. Non si è mai separato dalle sue convinzioni, Mario Dondero. Camallo onorario, partigiano a 16 anni in val d’Ossola e comunista come lo sono stati i grandi intellettuali del Novecento che ha fotografato, da Louis Althusser a Jean Paul Sartre. È bello pensarlo, ora, girovago tra i prati fioriti d’Irlanda, con l’immancabile Leica al collo, pronto a scattare.