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Il Jobs Act non servirà né a migliorare la qualità dell'occupazione, né a determinare una crescita dell'occupazione se non in ragione dell'esonero contributivo previsto dalla scorsa legge di stabilità. Il tema cruciale dell'occupazione femminile e delle misure di conciliazione figura tra i titoli della legge delega 183/14, ma se andiamo a vedere nel concreto notiamo più ombre che luci nello schema di decreto dedicato a misure sperimentali volte a tutelare la maternità delle lavoratrici e a favorire le opportunità di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.
Al di là dello specifico decreto, in generale il Jobs Act non prende in esame il tema delle disuguaglianze di genere e, come spesso abbiamo rilevato in questi anni, una politica fintamente paritaria dal punto di vista dell'opportunità se non si fa carico del differenziale rischia di aumentare il gap di genere.
Il primo atto del Jobs Act, cioè l'intervento sul contratto a termine proposto con la legge 78/14 (decreto Poletti) incentivando la acausalità dei contratti e la loro reiterazione, di certo avrà un effetto elusivo sul tema conciliazione lavoro/maternità; abbiamo infatti constatato in questi anni che la precarietà non solo scoraggia il rientro nel mercato del lavoro dopo la maternità ma contratti di breve durata prevengono il caso in cui una lavoratrice in forza entri in maternità e il conseguente percorso di "attenzione" che l'azienda deve riservarle, perché i contratti durano talmente poco da aggirare il tema.
Il contratto a tutele crescenti ha effetti distorsivi sulla stabilità del tempo indeterminato sia per uomini che donne, ma sicuramente è un brutto segnale che in occasione del riordino della disciplina dei licenziamenti non si sia resa organica la norma sulle dimissioni in bianco. Già fu un colpo di mano quello di bloccare la legge riapprovata alla Camera inglobando il tema in Senato nel ddl delega lavoro. Ora col Jobs Act siamo in presenza di norme che deregolamentano i licenziamenti illegittimi, limitando la funzione del giudice, restringendo l'ambito del discriminatorio, a norme che hanno per forza di cose bisogno di compensazioni normative su diritti universali e indisponibili come ad esempio la maternità.
Difatti, il governo propone un decreto “ad hoc”, perché se aumenta la precarizzazione, si cancellano sia le norme a protezione dei diritti delle persone che lavorano che gli strumenti sanzionatori degli abusi, e dunque le donne lavoratrici saranno di certo più esposte. Siccome nel Jobs Act si interviene su discipline quali orari, mansioni, tipi contrattuali, nella bozza di decreto sui congedi si puntualizzano alcuni aspetti che diventano fondamentali per preservare leggi come la 151/2001 molto avanzate ancora oggi.
Alcuni esempi possono essere la tutela in caso di parti prematuri prolungando il periodo di congedo, la tutela in caso di problemi del nascituro prevedendo flessibilità nel ricorso al periodo di congedo, la tutela nel percepimento dell'indennità di maternità anche in caso di risoluzione del rapporto di lavoro nel periodo di congedo per giustificate ragioni (articoli 2 e 3 schema dl). Questi esempi ci fanno capire come, avendo reso più facili licenziamenti e reso meno tutelate le condizioni di lavoro, ci sia bisogno di “proteggere” diritti fin qui dati per consolidati e indiscutibili.
Ci sono poi elementi di modernizzazione frutto delle nostre battaglie di questi anni, molte delle quali già contrattualizzate. In questo caso, si può sottolineare come l'estensione dei congedi in caso di affido e adozione, la rimodulazione del congedo di paternità (anche se noi continuiamo ad auspicare che un periodo diventi obbligatorio per incentivare la cultura della condivisione delle responsabilità genitoriali) (artt. 4-5-6-7), così come l'estensione temporale dei periodi in cui è possibile fruire di congedi (fino a 12 anni del bambino) e dei congedi frazionati su base oraria nel pubblico e nel privato, sia un primo passo in avanti.
La parte relativa al lavoro autonomo e parasubordinato prevede un'estensione delle prerogative della 151/01 e il principio da noi sempre affermato che in caso di mancato versamento dei contributi previdenziali da parte del datore di lavoro alla lavoratrice le sia corrisposta comunque un'indennità di maternità senza penalizzazioni. Alle lavoratrici “libere professioniste” viene estesa la previsione di maternità e congedi con riferimento al “proprio ente previdenziale”. Nulla si dice sulla disciplina della contribuzione, né sulle modalità di fruizione, come a voler dire mettiamo il “titolo”, ma non sapendo bene che fare. Per questa ragione ci sarà bisogno di una disciplina universale della maternità/paternità, come la Cgil ha sempre sostenuto che ricodifichi l'istituto per subordinati e autonomi garantendo stessi diritti.
Sulla violenza di genere, seppur positivo che si affronti il tema dell'astensione protetta non si comprende perché, ad esempio, debba valere solo per dipendenti o collaboratrici a progetto, escludendo tutti gli altri casi o perché si prevedano tre mesi di astensione come se tutte le violenze fossero uguali e non rimandando a valutazione dei periodi ai servizi sociali che prendono in carico la donna vittima di violenza. Le risorse per finanziare queste prime misure sono sottratte ad altri capitoli del lavoro e sulla conciliazione il dl rimanda a successive linee guida.
Siamo alla svolta dunque? Diremmo di no, sia per la parzialità del campo preso in esame, sia per l'insufficienza di risorse, sia per la logica in cui viene considerato il lavoro femminile continuando ad incentivare non le misure di accompagnamento e crescita professionale, di reinserimento post-maternità, ma guardando a come unica soluzione il telelavoro o tempo parziale, strumenti utili ma se frutto di scelte libere esercitabili solo in caso rappresentino una vera alternativa e non l'unico modo per poter continuare a lavorare.
L'occupazione femminile ha bisogno di strumenti che incentivino ingresso e permanenza delle donne nel mondo del lavoro con un piano straordinario di implementazione dei servizi di cura, assistenza, educativi e sui tempi delle città, come la Cgil ha proposto nel Piano del lavoro. Alla luce di quanto finora fatto dal governo, esaminato il Jobs Act, dovremmo dire che la strada di conquiste è ancora in salita e che l'Italia continua a non essere un paese per donne che lavorano.
* Segretaria conederale Cgil