Tra i deliri che ci è toccato sentire nel post-Rosarno c’è anche questo: “Qui non se ne poteva più. In paese c’è tutta l’Africa: marocchini, senegalesi, rumeni, moldavi”. Proprio così: lo abbiamo letto nei giorni del sangue sulle pagine di Repubblica. Su questa frase non bisogna ridere. Essa indica, nella sua assoluta rozzezza, che nella globalizzazione scomposta nella quale ci tocca vivere si rafforza sempre di più un’Internazionale dell’intolleranza, un pensiero distorto ma a suo modo universale che mette insieme in un unico orizzonte da respingere tutto ciò che è diverso e straniero.

È la dimostrazione di quello che la globalizzazione può produrre di mostruoso quando il continuo spostamento e interscambio di merci, persone, religioni e culture avviene in un contesto incontrollato di darwiniana lotta per la sopravvivenza. È per questo che all’Internazionale della xenofobia non basta rispondere con la ragionevolezza pure necessaria – ma un po’ ragionieristica – che spesso si ascolta dopo che esplodono tragedie come quella di Rosarno.

La sfida è culturale, chiama in causa orizzonti universali ed è vincente solo se è in grado di riprogrammare i riferimenti ideali e simbolici delle persone. Bisogna, insomma, contrapporre un’Internazionale dell’accoglienza a un’Internazionale della xenofobia e del razzismo. Ma come? Nell’intervista che appare su questo numero del Mese, Eligio Resta fa una critica serrata al concetto di cittadinanza – che giudica regressivo – e invita, invece, alla riscoperta della terza, dimenticata, dimensione chiave teorizzata dalla Rivoluzione francese, la “fratellanza” globale degli esseri umani. Non saranno soluzioni facili, ma sono spunti da cui ripartire per il dopo Rosarno.