Dopo il voto spagnolo appare chiaro che la crisi sociale ha ristrutturato i sistemi politici, soprattutto quelli del Sud Europa che ospitano nuove sigle, diversi attori. Anche se non viene travolto, come è accaduto al Pasok in Grecia, il partito socialista operaio spagnolo mantiene una buona presenza. E però, per governare, deve dialogare con Podemos, che cresce alla sua sinistra e si afferma soprattutto nelle città principali.

Nelle grandi aree urbane il disagio giovanile, la ribellione dei ceti medi, soprattutto intellettuali, trovano uno spazio politico alla sinistra dei tradizionali partiti socialisti. È per questo sbagliato interpretare Podemos e Syriza come formazioni irregolari di un populismo di sinistra che cavalca l’onda antipolitica e spezza la governabilità e l’efficacia. Si tratta piuttosto di accentuazioni più radicali di tematiche e istanze tipiche della sinistra storica lasciate cadere in nome di una modernità male intesa.

Il socialismo tradizionale mostra la propria debolezza (in Inghilterra, mentre crollano i liberali, che perdono 4 milioni e mezzo di voti, il Labour cede elettori di sinistra ai nazionalisti scozzesi e agli ecologisti; in Germania la Spd è stabilmente alle dipendenze della Merkel e dubita persino della necessità di candidare un proprio leader alla Cancelleria, nei paesi dell’Est i socialisti condividono posizioni ultraliberiste). Più che una moderna critica delle ingiustizie del capitalismo globale, la sinistra europea è percepita come una cittadella di conservazione, subalterna agli imperativi tecnico-finanziari dominanti.

Per questo non esiste un socialismo europeo capace di imporre una linea politica comune per risolvere i grandi nodi della crisi sociale secondo i valori di inclusione propri del movimento dei lavoratori. Ci sono solo dei singoli partiti nazionali che, in difesa dei margini di welfare ancora esistenti nei loro paesi, e per tamponare delle insidiose spinte populiste ed euroscettiche, sposano in pieno i paradigmi del rigore e dell’austerità che condannano alla povertà i ceti popolari.

Lo spettro della Grecia preoccupa i potenti d’Europa non perché il contagio economico sia devastante per la competitività del vecchio continente. Temono soprattutto dalla Grecia il contagio politico, e cioè che il successo di un governo di rivolta, rispetto al liberismo oltranzista che ordina di separare democrazia e vita buona, possa trovare dei proseliti e quindi tracciare le vie di un’altra Europa. Per questo il governo greco deve fallire.

L’isolamento e il fallimento politico della Grecia avrebbero però effetti negativi anche per le classi lavoratrici degli altri paesi del Sud Europa. Sepolte le velleità della sinistra ellenica di negare la razionalità del folle piano della divinità del rigore, che beve nettare dal cranio degli uccisi, non ci sarebbero margini per un’efficace cura politica degli effetti distruttivi della grande contrazione economica e quindi ancora precarietà, esclusioni, inquietudini, marginalità.