Poca pare la considerazione per il ruolo del capo dello Stato che emerge dal selfie con il quale il presidente del consiglio si è sostituito al Quirinale nella firma in calce alla nuova legge elettorale, dandola già per approvata prima del necessario vaglio di Mattarella. “Firmerà”, ammoniva peraltro anche il ministro Boschi, quasi a indicare che c’è una maggioranza pronta a dettare gli ordini e al Colle non resta che obbedire.
Eppure la firma (apposta effettivamente lo scorso 7 maggio) non era un atto dovuto. A prescindere dal contorno (opposizioni che abbandonano l’aula, voto a favore del provvedimento da parte del solo Pd e di qualche cespuglio), si palesavano spine fastidiose che avrebbero dovuto suggerire qualche dubbio all’inquilino del Colle. La prima questione è relativa alla clausola che rinvia al luglio del 2016 l’applicabilità della nuova legge.
È parso curioso che la gran fretta che spingeva a comprimere ogni dibattito in aula (con il paradosso che la nuova legge per la Camera è stata scritta nella sua versione finale dal Senato, cioè da un organo destinato ad altra vita) poi culminasse nella lunga sospensione dell’applicabilità della nuova normativa. Coesistono, in tal modo, due leggi elettorali.
In caso di voto anticipato, si andrebbe alle urne con il meccanismo tracciato dalla Consulta e non con quello deciso dal Parlamento. Un pastrocchio. Ma la fondamentale asperità, che avrebbe dovuto indurre il Quirinale a ben altra valutazione del testo, è quella della doppia e addirittura antinomica legislazione vigente per Camera e Senato.
Il Senato, che ancora mantiene intatte le sue prerogative costituzionali ispirate al bicameralismo paritario, ha quale suo metodo di elezione il dispositivo proporzionale con sbarramento all’8 per cento (rappresentanza come ispirazione cardine). La Camera invece adotta un meccanismo premiale di tipo maggioritario (governabilità come obiettivo strategico raggiunto in maniera automatica).
Su questa assurda combinazione, il Colle avrebbe potuto chiedere di vederci più chiaro. È infatti di sorprendente (vale a dire nulla) costituzionalità l’adozione di meccaniche elettorali opposte per organi che svolgono le stesse funzioni costituzionali (prima fra di esse il vincolo fiduciario con l’esecutivo). Non è possibile varare alcuna legge elettorale che riguardi solo la Camera sino a che non è stato portato a compimento l’iter della riformulazione di ruolo e modi di designazione del Senato. La prima lettura non è da ritenersi sufficiente per sciogliere i legittimi dubbi.
Con la firma, il Quirinale ha attribuito valenza fattuale a un evento per il momento solo ipotetico (la riforma del Senato). La richiesta di un chiarimento alla Camera, con il rifiuto dell’assenso del capo dello Stato al testo inviato dal governo, sarebbe stata la soluzione più coerente dinanzi al palese pasticcio della riforma, che su questi dettagli e tacendo di altri relativi all’accesso al ballottaggio senza alcun limite quantitativo (che si prestano a un più complesso dibattito), sembra mostrare gli indizi di una manifesta incostituzionalità.
Legge elettorale: perché la firma del Colle non era un atto dovuto
La fondamentale asperità, che avrebbe dovuto indurre il Quirinale a ben altra valutazione, è quella della doppia legislazione vigente per Camera e Senato DI MICHELE PROSPERO
11 maggio 2015 • 00:00