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Il settore del lavoro agricolo e quello dell’industria alimentare sono settori con realtà profondamente differenti: contratti diversi, condizioni di lavoro e contesti diversi, numeri diversi con il 28% di lavoratrici nell’agricoltura e circa il 40% nell’industria alimentare.
In questo quadro articolato e dalle varie sfumature, anche in Italia, esiste un problema di differenza salariale di genere, che però si articola con particolari modalità a volte più dirette a volte più subdole. Il tutto in una situazione che vede la modernissima Europa con un differenziale retributivo di genere pari a circa il 16%, cioè rispetto agli uomini è come se le donne lavorassero 59 giorni a salario zero.
Ma tornando al nostro settore, il differenziale retributivo di genere nella sua manifestazione più brutale lo si riscontra in campo agricolo laddove, in presenza di lavoro nero, sfruttato, fenomeni di sotto salario e caporalato, le donne vivono una doppia condizione di sfruttamento, con paghe in nero – come i colleghi uomini – ma più basse delle loro. Attraverso ricerche e interviste dirette è emerso che le donne, spesso straniere, prendono una paga inferiore, e se provano a chiedere il motivo la risposta è lapidaria: “sei donna, se vuoi lavorare è così”. E questo non solo se si tratta di caricare cassoni di frutta, mansione per la quale l’uomo “rende di più”, ma anche per i lavori in serra o per alcune potature per le quali la donna ha maggiori capacità.
Tuttavia l’aspetto salariale non è l’unico che “fa la differenza”, tante sono le braccianti straniere e italiane, che sono sfruttate quanto gli uomini, ma in più – spesso – sono costrette a subire la violenza e i soprusi dei datori di lavoro e dei caporali, anche qui una violenza in più perché donne.
Nel settore dell’industria alimentare constatiamo che la disparità non si manifesta direttamente su un trattamento salariale differente sancito dal contratto, quanto su percorsi ed avanzamenti professionali, che poi si trasformano in un concreto e reale differenziale retributivo. Le donne sono meno coinvolte degli uomini in percorsi di formazione e aggiornamento, un fenomeno generato anche dal fatto che spesso le donne non riconoscono e non danno il giusto valore alla loro polifunzionalità e polivalenza all’interno dell’organizzazione del lavoro: intrecci, incastri, molteplicità di azioni anche in ambiti diversi non vengono riconosciuti come elemento che ha un valore in sé anche in termini di monetizzazione. Ovviamente, la percezione che le lavoratrici hanno di loro stesse all’interno del luogo di lavoro e del processo produttivo è anche dettata da una condizione che ancora oggi vede le donne meno presenti in posizioni apicali.
Anche alla luce di tali analisi è necessario un maggiore intervento attraverso la contrattazione e l’organizzazione del lavoro per annullare quella disparità retributiva che si manifesta in modo indiretto ma ugualmente pressante. Un altro elemento importante di riflessione, riguardante sia il settore agricolo che dell’industria alimentare, è quello relativo alla sicurezza sul lavoro. Se in generale è un campo sul quale ancora molto c’è da fare in termini di prevenzione, investimenti e sanzioni, in particolare va notato che l’esistente normativa e taluni parametri, troppo spesso sono tarati su un target maschile, mentre dovrebbe esistere – qui sì – una prevenzione di genere. È necessario agire su un canale che sia di prevenzione rispetto a quella che è la prestazione lavorativa femminile, mentre si rincorre uno stereotipo assolutamente maschile di prestazione lavorativa senza andare ad agire su quelle che sono invece le reali ripercussioni e le reali condizioni lavorative che una donna si trova ad affrontare.
I nodi da sciogliere rimangono ancora molti e non credo si possano affrontare in un’ottica di separatezza, bensì agendo con strumenti contrattuali e normativi che includano in ogni parte il tema della differenza di genere e della parità di opportunità e trattamento, ma nelle differenze.
* Segretario generale Flai Cgil Nazionale