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Reggio Emilia, 2020: proviamo a fare un viaggio in un passato non troppo lontano, negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Anna guarda verso la telecamera e ricorda: era operaia tessile alla Emiliana Confezioni di Novellara, una delle aziende del sistema Max Mara. All’epoca una ragazza che voleva lavorare, lavorava nel tessile. Non aveva molte alternative. Così Anna, dopo il tirocinio, entrò in Max Mara, azienda che si avviava a diventare il grande gruppo che conosciamo oggi. Ma Anna non trovò una fabbrica accogliente: “Il valore che davano a noi operaie era rappresentato dall’ambiente in cui ci facevano lavorare – racconta –. Fabbriche fatiscenti, ruderi pericolanti, senza servizi: uno specchio di quello che rappresentavamo per loro”.
Questo era l’ambiente. Quanto al lavoro, si svolgeva sotto il dominio del cottimo. Spiega sempre Anna: “Era determinato dai tempi di produzione che ogni operaia doveva mantenere. Era una cosa asfissiante. C’erano compagne che piangevano nel tentativo di raggiungere la soglia di produzione, e non ci arrivavano mai”. Il cottimo era voce essenziale del salario. Se non raggiungevi il livello guadagnavi una miseria e venivi anche redarguita. Ma non come un uomo, come una donna. Cosa significa? Anna non distoglie lo sguardo dal video e sorride: “Essere donne ci rendeva già, di per sé, ‘minorenni’. Non so se mi spiego. Eravamo sotto tutela o del marito o del padre. L’azienda inviava le sue lettere ai nostri mariti o ai nostri padri dicendo che la signorina tal dei tali non aveva raggiunto la soglia minima di produzione, e che quindi ci sarebbero stati ulteriori richiami”. Una umiliazione: “Era questo il contesto nel quale lavoravamo. Eravamo proprio suddite, controllate tutti i giorni sui tempi di lavoro da un cronometrista che si sedeva accanto a noi e verificava ogni operazione. Anche andare in bagno era un problema. Fu in quel periodo che la medicina del lavoro cominciò a entrare in fabbrica. La battaglia per la salute è una delle prime che io ricordi”.
Non è un caso che Anna, in seguito delegata sindacale della Cgil, ricordi “battaglie”. La sua è la generazione che ha portato il sindacato nello stabilimento, e che per prima, nell’Italia che si industrializzava e apriva le fabbriche alle donne, ha combattuto per i diritti delle lavoratrici. La sua è la storia dell’emancipazione in fabbrica e fuori dalla fabbrica. Quella di Anna è una delle vicende raccontate da Amatissime. Memorie di lavoro e di lotta delle operaie tessili reggiane, una mostra fotografica, documentale e audiovideo organizzata dalla Cgil di Reggio Emilia, che sarà inaugurata il 18 gennaio a Reggio (presenti il segretario generale della Cgil Maurizio Landini e il sindaco Luca Vecchi) e che si potrà visitare presso lo Spazio Gerra fino all’8 marzo (qui le informazioni).
Amatissime (esplicito l’omaggio alla scrittrice afroamericana Toni Morrison, premio Nobel per la letteratura, morta l’anno scorso), è una mostra che - come argomenta la curatrice Eloisa Betti, docente di Storia del lavoro all’Università di Bologna - “tematizza le lotte delle lavoratrici tessili reggiane tra anni Sessanta e Settanta, tracciando i contorni delle principali esperienze di conflittualità e delle numerose forme di solidarietà sviluppatesi tra fabbrica e territorio”. Prosegue la studiosa: “Le condizioni di lavoro sono rappresentate nella loro materialità negli spazi industriali, accanto alle mobilitazioni per i diritti sociali immortalate tra la fabbrica e gli spazi pubblici della città. Fotografie d’epoca e memorie consentono di immergersi nel clima di grande fermento degli anni Settanta con un punto di vista inedito: quello delle lavoratrici”.
Immagini e documenti provengono in gran parte dall’Archivio storico della Camera del lavoro di Reggio Emilia; nuclei importanti di fotografie sono stati messi a disposizione anche dalla Fototeca della Biblioteca Panizzi e da numerosi privati. “Abbiamo iniziato a lavorarci un anno e mezzo fa, mentre ragionavamo sull’anniversario dell’Autunno caldo, sul contratto dei metalmeccanici del 1969 e sullo Statuto dei lavoratori – spiega Valerio Bondi, della segreteria Cgil Reggio Emilia –. Poi abbiamo deciso di concentrarci sul conflitto nel settore tessile reggiano, allargando l’arco temporale dalla metà degli anni Sessanta sino alla fine degli anni Settanta. La mostra si concentra su tre grandi aziende tessili del territorio di allora, la Bloch (teatro di una vertenza che richiamò al fianco delle lavoratrici artisti come Lucio Dalla e Dario Fo), la Confit e appunto Max Mara, e propone ai visitatori sei interviste video collettive (tra cui quella di Anna, ndr), 120 fotografie e 45 materiali d’archivio”.
Al fianco delle micro-narrazioni e delle storie di lavoro e di fabbrica, il percorso espositivo della mostra si snoda lungo quattro nuclei tematici principali: luoghi e condizioni di lavoro, esperienze di lotta e forme di conflittualità, lotte sociali e per i diritti femminili, comunità operaia di lotta e momenti di solidarietà. “Difesa dell’occupazione, contrasto al cottimo, applicazione dello Statuto, condizioni di lavoro e diritto alla salute – spiega ancora la curatrice – sono solo alcune delle parole scandite dalle operaie, che portano la loro soggettività dentro e fuori le fabbriche reggiane. Intrecciano così lotta di classe e rivendicazione di diritti sociali collegati alla condizione di donna, lavoratrice e madre”.
Nel 1971 la provincia di Reggio Emilia dava lavoro, solo nel settore del tessile-abbigliamento, a oltre seimila donne, quasi tutte giovani e al loro ‘esordio’ in fabbrica. L’impiego nel tessile avviene peraltro entro una transizione dal lavoro nelle campagne che porterà le donne, nel corso di un ventennio, a entrare anche nelle fabbriche metalmeccaniche. Ricostruisce ancora Eloisa Betti: “Lo sviluppo dell’industria delle calze e maglie, da un alto, quello delle confezioni in serie, dall’altro, aveva prodotto tra anni Cinquanta e Sessanta una crescita significativa dell’occupazione femminile non solo in fabbrica: alle operaie si aggiungevano migliaia di lavoranti a domicilio”. Ma “la crescita industriale non si era accompagnata a un miglioramento delle condizioni lavorative e dell’ambiente di lavoro: sotto-salario, ritmi spossanti e nocività sono caratteristiche comuni nelle fabbriche della fine degli anni Sessanta”. La ricostruzione della studiosa coincide con la memoria delle lavoratrici: fu la “stagione del conflitto” e della mobilitazione sindacale unitaria promossa dalle federazioni reggiane di Filtea-Cgil, Filta-Cisl, Uila-Uil, che portò alle grandi battaglie (non tutte vinte, ma tutte combattute) per la salute e sicurezza, per le condizioni di lavoro, per la contrattazione del cottimo, per il riconoscimento dell’anzianità, per gli asili nido, per il contratto nazionale, solo per citare alcuni dei temi principali ricostruiti dalla mostra.
Essere donne, dice Anna nella sua testimonianza video: non a caso, è il titolo del capolavoro di Cecilia Mangini, un documentario sulla condizione femminile nei luoghi di lavoro girato proprio in quegli anni. La mostra Amatissime aggiunge un nuovo capitolo a quella storia, e racconta un tempo non così lontano da quello che è diventato, che sta diventando, il mondo del lavoro: un mondo di ingiustizie crescenti e di necessarie battaglie.
(Sul sito della Cgil Reggio Emilia: le informazioni sulla mostra)