Sulle ultime leggi in materia pensionistica, di questo e del precedente governo, non c’è soltanto l’agonia degli esodati, ma anche il “mostro legislativo” sulle ricongiunzioni onerose, introdotto con l’articolo 12 della legge n. 122 del 2010, che prevede l’obbligo per ogni lavoratore o lavoratrice che voglia ricongiungere i contributi versati in quota parte in Inps e Inpdap, in un’unica gestione, a pagare cifre anche importanti per assicurarsi un’unica pensione. Un’operazione che prima del 2010 si poteva fare gratuitamente; ovvero il pagamento era previsto solo quando il trasferimento fosse avvenuto da Inps a Inpdap, a fronte di un trattamento più favorevole sulle pensioni dei dipendenti pubblici. Dal 2012 i criteri per andare in pensione sono sostanzialmente allineati tra dipendenti pubblici e privati. Nessun vantaggio, perciò, sotto il profilo dell’età di accesso alla pensione sarà previsto per chi transita da una gestione previdenziale a un’altra.

Ciononostante la norma della legge 122 del 2010, che ha esteso l’onerosità della ricongiunzione in tutte e due le direzioni provocando non poche distorsioni e iniquità, è stata confermata dall’attuale governo. Paradossalmente, per esempio, un’insegnante che abbia svolto il proprio lavoro nello stesso istituto privato, successivamente parificato a pubblico, con quote di contributi versati sia in Inps che in Inpdap, è costretta alla ricongiunzione onerosa se vuole avere un’unica pensione. Nella stessa situazione si trovano i dipendenti delle aziende municipalizzate, per i quali è cambiata la ragione sociale dell’impresa. Se ciò non bastasse, si consideri la condizione particolare in cui si trovano gli insegnanti che hanno dato le dimissioni, con valore irreversibile, a febbraio 2010, prima dell’entrata in vigore della legge (30 luglio 2010, con effetto retroattivo dal 1° luglio), convinti di poter contare sulla gratuità della ricongiunzione, rimasti intrappolati, senza via di scampo.

La commissione Lavoro sta esaminando vari testi di legge per correggere questo obbrobrio, ma su di essi pesa lo stop della Ragioneria generale dello Stato che stima in quasi 2 miliardi e mezzo la copertura finanziaria del provvedimento da adottare, seguendo un criterio opinabile: e cioè basando il calcolo sull’intera platea dei potenziali aventi diritto. In altre parole, la cifra scaturisce dalla semplice somma aritmetica di coloro che potenzialmente potrebbero chiedere la ricongiunzione dei loro contributi, senza considerare che non tutti potrebbero avere convenienza a farla: tante e profondamente diverse sono infatti le posizioni contributive. Peraltro, l’onerosità della ricongiunzione, introdotta due anni fa per scoraggiare il trasferimento dei contributi delle donne del pubblico impiego, alle quali era stata innalzata l’età di pensionamento a 65 anni, verso il fondo dei lavoratori dipendenti privati dell’Inps, che potevano accedervi prima, non prevedeva alcuna copertura finanziaria perché considerata una misura semplicemente di deterrenza.

Di fatto, però, la fuga non c’è stata e non ci sarà per effetto della legge n. 214; e ora a farne le spese sono tutti i lavoratori con contribuzione frammentata in più casse previdenziali, ai quali si chiede di pagare cifre importanti, che oscillano dai 30-40 mila euro fino ai 300 mila, per avere un unico trattamento pensionistico, nonostante l’azzeramento delle differenze previsto dalle nuove norme targate Monti-Fornero. A chi non paga resta l’alternativa di rinunciare a periodi contributivi anche significativi e di lavorare altri anni necessari al raggiungimento dei nuovi requisiti anagrafici introdotti dalla legge 214 del 2011, facendo lievitare il numero delle posizioni silenti nell’Inps: cioè quelle alle quali né l’Inps né l’ex Inpdap non corrispondono alcuna prestazione pensionistica. In queste pagine raccontiamo quattro storie emblematiche dei tanti paradossi di quella che si configura come una vera e propria truffa.

I casi, scelta obbligata
Margherita Lanari ha sessantasette anni. Dopo una carriera discontinua, contrassegnata da periodi di non lavoro dedicati alla famiglia e soprattutto ai figli, coperti solo in parte da versamenti volontari nel fondo lavoratori dipendenti privati, riesce ad accumulare ventisei anni di anzianità contributiva, di cui sedici in Inps e dieci in Inpdap. Nel 2010 l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), presso cui lavora, le fa sapere che a fine anno deve lasciare il suo lavoro, per effetto della legge Brunetta che prevede la risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro dei dipendenti della pubblica amministrazione in possesso dei requisiti pensionistici. Margherita ha sessantacinque anni, perciò non ha scelta. Il 31 dicembre è il suo ultimo giorno di lavoro. Cinque mesi prima, il 26 luglio, presenta la domanda di ricongiunzione dei contributi versati, sapendo che non le costerà nulla.

Quattro giorni dopo, però, le cose cambiano. La legge 122 approvata il 30 luglio impone l’onerosità della ricongiunzione a tutti i lavoratori che hanno contributi in più gestioni previdenziali, se vogliono un’unica pensione. In un primo momento, Margherita pensa di essere esclusa dalla norma perché ha provveduto prima di questa scadenza ad avviare regolare domanda. Ma le cose non stanno così perché la norma ha effetto retroattivo dal 1° luglio. Un mese prima di lasciare il lavoro, quindi, scrive all’Inps, con raccomandata, per sapere quanto dovrà pagare per valorizzare al massimo il suo patrimonio contributivo. Sa bene che se non dovesse essere in grado di sostenere la spesa, l’unica alternativa è di totalizzare i contributi, subendo le penalizzazioni del calcolo contributivo della sua pensione.

Nonostante i reiterati solleciti, l’Inps non risponde. Anzi. Gli unici chiarimenti li ottiene per vie ufficiose e non sono per niente rassicuranti. L’Inps non è in grado di effettuare il calcolo della ricongiunzione a causa della mancanza di un software dedicato. Bisogna attendere. Nel frattempo, si avvicina l’ultimo giorno di lavoro e Margherita si accorge di non aver neppure fatto domanda di pensione. Perciò, prima di subire altre vessazioni e disattenzioni da parte dell’Inps provvede ad avviare regolare domanda di pensione il 22 dicembre per ottenere almeno i termini della decorrenza del trattamento di pensione al 1° gennaio 2011. Ancora una volta l’Inps non sente il dovere di rispondere. Perciò il 22 marzo 2011 Margherita si rivolge all’Inca per presentare almeno la domanda di totalizzazione dei contributi, con riserva rispetto alla ricongiunzione, avendo cominciato a temere che un’ulteriore attesa avrebbe potuto danneggiarla, come è purtroppo accaduto per la decorrenza.

Il 1° settembre viene contattata dall’Inps che le chiede di formalizzare la rinuncia alla ricongiunzione, nonostante non sia stata conclusa la pratica, pena il blocco della richiesta di totalizzazione. Un salto nel buio, se si considera che il calcolo dell’onere non è stato fatto. La vicenda di Margherita si è conclusa, se così si può dire, con il riconoscimento di una pensione in totalizzazione a partire dal 1° aprile, anziché dal 1° gennaio 2011 e senza arretrati. È stata costretta a una scelta obbligata, senza sapere l’esatto importo della ricongiunzione contributiva che le avrebbe consentito di avere una pensione più alta. Di questo ne è consapevole lei stessa, che riferisce di alcuni calcoli forniti in via ufficiosa dalla sede di via Amba Aradam dell’Inps: se avesse potuto cumulare i suoi ventisei anni di anzianità contributiva, la sua pensione sarebbe stata di circa 1.200 euro, anziché di 804, tanti sono quelli che oggi, con colpevole ritardo dell’Inps, Margherita percepisce.

La forza dei media
Giuseppe Povero, sessantadue anni, ha dedicato la sua vita alla formazione lavorando dal 1977 al 2002 in società private (Csea e Metrotec), come docente, coordinatore, capo progetto ecc. Nel febbraio 2002 aveva accumulato ventisette anni, cinque mesi e ventiquattro giorni di contribuzione nelle casse dell’Inps, comprensivi del riscatto della laurea in matematica e del servizio militare. Dopo una piccola parentesi di sei mesi con un contratto co.co.co. presso il Comune di Torino, Giuseppe viene assunto dallo stesso Comune, come dirigente incaricato, in base a quello che si chiama il contratto Bassanini, cioè una modalità di assunzione a tempo determinato consentita agli enti locali per far fronte a carenze di organico in settori ritenuti strategici come, in questo caso, la formazione. Dal settembre 2002 al giugno 2011, quindi, Giuseppe continua la sua esperienza professionale, nell’ambito delle politiche per il lavoro, alle dipendenze del Comune di Torino e i suoi contributi previdenziali, perciò, cambiano destinazione. Non più all’Inps, come era stato fino ad allora, ma all’Inpdap.

Al 31 dicembre 2009 ha già i requisiti per accedere alla pensione di anzianità con il vecchio sistema delle quote, avendo cinquantanove anni di età e trentasei anni di contribuzione, con decorrenza al 1° gennaio 2010. Giuseppe, però, non lo ha fatto perché il cosiddetto contratto Bassanini gli imponeva di restare fino alla scadenza naturale del contratto, prevista per il 30 giugno 2011, coincidente con le elezioni per il nuovo sindaco di Torino. Ad aprile 2011 aveva trentotto anni di anzianità contributiva e sessantuno anni di età. Alla vigilia della scadenza del suo contratto, Giuseppe fa contestualmente sia la domanda di pensione che quella di ricongiunzione, sapendo già che l’operazione non sarebbe stata gratuita. Nel marzo 2012 arriva la comunicazione ufficiale dell’Inps che, informandolo dell’accoglimento della richiesta, gli fa sapere che dovrà sborsare circa 180 mila euro, con rate mensili superiori all’importo di pensione. La situazione che gli si prospetta è di pagare in un’unica soluzione 22 mila euro, comprendenti tre rate mensili anticipate e per cinquanta mesi non solo non vedrà un euro di pensione, ma dovrà aggiungere una quota dei suoi risparmi per onorare il debito contratto con l’Inps. Giuseppe fa notare il paradosso e l’Inps provvede a correggere i suoi calcoli. A fronte di una pensione lorda di 3.900 euro la rata diminuisce a 2.100 euro netti ogni mese.

Ma questa agevolazione non è a costo zero. Alla riduzione delle rate, infatti, corrisponde un aumento della quota di anticipo. In sostanza, se Giuseppe avesse accettato le nuove condizioni di pagamento, avrebbe dovuto sborsare, entro il 31 luglio, 72 mila euro in un’unica soluzione, anziché i 22 mila richiesti nella prima ipotesi di rateizzazione. Per lui non resta che pagare. E lo ha fatto! Dal mese successivo, Giuseppe ha cominciato a pagare le rate del debito, senza, peraltro, percepire un euro di pensione fino al 2 novembre 2012, tanto ha dovuto attendere perché l’Inps emettesse il primo mensile decurtato a circa 1.300 euro lordi. Il sospetto di Giuseppe è che a sbloccare la sua posizione abbia contribuito la sua partecipazione alla trasmissione televisiva di Rai 3 “Codice a barre”, dove ha potuto raccontare la sua storia. Forza dei media! Con una pensione più che dimezzata sarà costretto a fare i conti fino ai primi mesi del 2015, salvo imprevisti dell’ultima riforma (?).

L’onorata carriera degli insegnanti
“È una vera e propria porcata. Un colpo di mano contro le donne del pubblico impiego”. Non usa mezzi termini Paola Calzolari, sessantuno anni, quando le chiediamo di dare un giudizio sulla norma, contenuta nella legge 122 del 2010, che ha cancellato la gratuità della ricongiunzione contributiva assicurata sin dal 1958 dalla legge n. 322. La sua storia è simile a quelle di tanti altri insegnanti che, dopo decenni di onorata carriera in istituti scolastici pubblici e privati, sono costretti a pagare un conto salato per avere un’unica pensione. Insieme a lei altri mille insegnanti hanno costituito un’associazione il cui titolo non lascia margini a dubbi sul loro obiettivo. “Aboliamo l’articolo 12 della legge 122/2010”. Seguono con apprensione i lavori parlamentari della commissione Lavoro della Camera nella speranza che le proposte di modifica alla legge entrata in vigore alla vigilia della pausa estiva del 2010 vengano approvate dal Parlamento per correggere quell’obbrobrio legislativo e per ristabilire un principio di equità che sentono profondamente calpestato.

Il racconto della professoressa Calzolari è emblematico. La sua carriera di insegnante di latino e greco si divide tra una scuola privata e un’altra pubblica e i suoi contributi, dunque, risultano divisi tra Inps e Inpdap. Per tanti anni insegna latino e greco presso l’istituto parificato San Celso di Milano (dal 1° ottobre 1975 all’11 settembre 2001). Successivamente viene assunta dallo Stato e prosegue la sua professione al Liceo scientifico statale Claudio Cavalleri di Parabiago di Milano. Al 1° settembre 2009, sotto il profilo previdenziale, quando aveva cinquantanove anni, poteva andare già in pensione, avendo totalizzato trentanove anni e sei mesi di anzianità contributiva: trent’anni presso l’Inps, comprensivi del riscatto di quattro anni di laurea e di sei mesi di congedo per maternità, e nove anni di versamenti all’Inpdap.

La professoressa Calzolari, però, decide di restare in servizio, convinta che la ricongiunzione gratuita dei contributi verso l’Inps sia un diritto oramai acquisito. Come le impone la legge, quindi, il 10 febbraio 2010 fa domanda di pensione all’Inps, con decorrenza dal 1° settembre e senza aspettare la conclusione del servizio effettivo, che per la scuola è fissato al 31 agosto, decide di anticipare anche la richiesta di ricongiunzione gratuita dei contributi all’Inpdap il 3 marzo, avvalendosi della normativa della legge n. 322 del 1958; scelta che peraltro aveva espressamente indicato nella stessa domanda di pensione all’Inps. La risposta dell’Istituto previdenziale dei pubblici dipendenti arriva tardi. Il 28 ottobre 2010 l’Inpdap, infatti, le comunica che non può più procedere al trasferimento gratuito dei contributi a causa dell’intervento della legge 122/2010, né poteva farlo prima perché era necessario attendere la scadenza effettiva dal servizio; cioè il 31 agosto, alla conclusione dell’anno scolastico. La professoressa Calzolari rimane quindi “incastrata” dalla legge matrigna che non ha previsto neppure una salvaguardia per i lavoratori che avevano già presentato le dimissioni ponendo in essere, come in questo caso, scelte irreversibili. Da questo momento le cose si complicano.

Ricevuta la comunicazione che la gratuità della ricongiunzione, prevista dalla legge n. 322 del ’58, è stata abrogata dalla nuova normativa (legge 122/2010), entrata in vigore il 31 luglio, presenta il 29 ottobre 2010 domanda di ricongiunzione ai sensi dell’articolo 1 della legge 29/79. Dal 1° luglio (con effetto retroattivo rispetto all’approvazione della norma) questa forma di ricongiunzione è diventata onerosa: una doccia fredda, del tutto inaspettata. Se vuole avere un’unica pensione e non perdere i contributi versati presso l’Inpdap deve pagare circa 40 mila euro, dilazionabili in cinquantatré rate mensili di 750 euro ciascuna, di cui tre anticipate in un’unica soluzione. La conclusione è che per oltre quattro anni la professoressa Calzolari percepirà una pensione più che dimezzata. E solo dopo aver onorato il debito verso l’Inps potrà riappropriarsi dell’intero importo: circa 1.300 euro mensili, dopo quasi quarant’anni di onorato servizio.

Salto nel buio
Il guazzabuglio in cui si trova Stefano Zimbalatti, anni cinquantacinque, merita di vincere addirittura il guinness dei primati per salto nel buio. Ha cominciato a lavorare nel 1976 presso la Cassa di Risparmio Meridionale Carime e ci resta fino ad ottobre del 1990. I suoi contributi previdenziali sono di competenza Inps perché l’istituto di credito è privato. Poi si trasferisce a Milano, perché assunto dal Monte di Bologna e Ravenna, considerato un ente di diritto pubblico locale; perciò da quel momento i suoi contributi vengono versati all’Inpdap. Stefano decide, quindi, di chiedere il ricongiungimento del suo patrimonio contributivo verso l’Inpdap, che gli assicura rendimenti più alti. L’operazione non è a costo zero, perché la legge prevede il trasferimento oneroso, a fronte di un trattamento pensionistico più consistente. Dopo l’accoglimento della richiesta da parte dell’Indap, la sua posizione contributiva presso il fondo dei lavoratori privati dell’Inps, quindi, viene cancellata.

Ma non è finita. Dal 2000 Stefano cambia ancora lavoro e questa volta l’Istituto di credito (Ubi Banca) è nuovamente un ente di diritto privato; quindi, il corso dei suoi nuovi contributi torna ad essere verso l’Inps. Nel 2002, vista la variabilità della destinazione dei suoi versamenti, Stefano chiede lumi circa la possibilità di ottenere una seconda ricongiunzione, per far tornare in Inps l’intero montante contributivo. A quella data nulla lascia presagire che qualcosa possa cambiare. Secondo le leggi vigenti allora la ricongiunzione da Inpdap a Inps (che assicura rendimenti più bassi) è gratuita. Glielo assicurano entrambi gli enti, ma anche i patronati e i sindacati. Può farlo in qualunque momento, gli assicurano, perciò prende tempo. Non fa richiesta di ricongiunzione e prosegue nel suo lavoro come sempre ha fatto.

Nel 2010 la sua posizione contributiva è spaccata in due parti: venticinque anni in Inpdap e dieci in Inps. Il 31 luglio dello stesso anno, però, viene approvata la famigerata legge n. 122 del 2010 che cancella la gratuità della ricongiunzione a tutti i lavoratori e alle lavoratrici che abbiano versamenti in più casse previdenziali in tutte le direzioni: sia da Inpdap a Inps, che viceversa. Secondo alcuni calcoli ufficiosi forniti da qualche volontario dell’Inps, la scelta di due anni prima di rinviare la domanda di ricongiunzione gli costerà 190 mila euro; a tanto ammonta l’onere per trasferire nuovamente i contributi da Inpdap a Inps. Come nel gioco del Monopoli, Stefano ora è finito in prigione e non sa come uscirne. Ha davanti a sé tre possibilità: rinunciare all’unificazione dei contributi, in attesa di tempi migliori; totalizzarli subendo però le conseguenze del calcolo contributivo della sua pensione, con un abbattimento di circa il 40 per cento dell’importo; lavorare fino al raggiungimento dell’età legale di pensionamento previsto dalla riforma Fornero, cioè quasi 68 anni, quando avrà raggiunto circa 49 anni di anzianità contributiva; con il risultato che otterrà una pensione più bassa rispetto a quella di un collega che pur svolgendo lo stesso identico lavoro ha avuto la fortuna di essere dipendente di banche private.

Ma non basta, anche se accettasse di pagare i 190 mila euro, non è affatto scontato che la sua richiesta di ricongiunzione onerosa venga accolta una seconda volta dall’Inps. Infatti, al momento, l’orientamento dell’Istituto è di dichiarare inammissibile la domanda, in base all’articolo 1 della legge n. 29/79, poiché Stefano ha già chiesto e ottenuto una ricongiunzione verso l’Inpdap. Paradosso dei paradossi è che il montante contributivo finora accumulato, sempre secondo i volenterosi dell’Inps, ammonta a circa 490 mila euro e altrettanti sono quelli già maturati in Inpdap. A fronte di circa un milione di euro, fino ad oggi versati, a Stefano si chiede di pagarne altri 200 mila circa se vuole valorizzare tutto il suo patrimonio contributivo.