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Il tempo che dobbiamo vivere non lo possiamo scegliere, ma se potessimo farlo, perché non scegliere quello della tempesta perfetta del nostro tempo? Le idee e le aspettative oscillano sull’onda della crisi economico-sociale iniziata nel 2007 e la vertiginosa altezza dei cambiamenti radicali necessari. La sensazione è quella di una crisi epocale; si potrebbe definirla una crisi paradigmatica che evoca una crisi del pensiero. Non è la prima volta che accade, ma questa crisi sembra più difficile da sciogliere, e non solo perché è quella più prossima.
Il dibattito politico e sociale chiama spesso in causa le grandi coppie del capitalismo – capitale e lavoro, Stato e mercato, produzione e finanza –, ma il capitalismo non si riduce entro queste coppie. Nello specifico del rapporto fra capitale e lavoro, se guardassimo allo stato di salute di ciascuno di essi, potremmo solo rappresentare la desolante ininfluenza e incapacità di entrambi nel delineare nuove traiettorie di sviluppo: né singolarmente in virtù di un conflitto, né congiuntamente per effetto di una cooperazione forzata dagli eventi contingenti e avversi.
Solow ricorda che il lavoro non è una merce come tutte le altre. Il monito insito in questa sottolineatura non è da ricondurre alla specifica connotazione umana della “merce lavoro”; la qualità del lavoro che sfugge, si specchia nella qualità del capitale che cambia, mai uguale a se stesso, rendendo la coppia capitale-lavoro troppo piccola e, soprattutto, strutturalmente insufficiente per ricomporre-ricostruire la storia del capitale. Riprendendo ed estendendo Marx, la storia dell’economia, del lavoro e del capitale, delle grandi e piccole crisi, che è scritta certamente con il concorso del capitale e del lavoro, non può prescindere dal considerare il ruolo cruciale di ciascuna delle altre istituzioni.
Certamente attraversiamo un’epoca nella quale il ruolo dello Stato nell’economia non trova né facile applicabilità, né sostegno teorico. Il successo dello Stato di Roosevelt nel determinare l’uscita dalla Grande Depressione, trova una controparte coerente sul piano teorico nell’impianto di Keynes; d’altro canto, proprio la rivoluzione di Reagan degli anni ottanta ha cambiato in profondità la società – lavoro, capitale e Stato –, lasciando qualcosa per sempre. Questo punto è particolarmente evidente nella speculazione finanziaria. Le società di questo settore non realizzano i propri margini sul conto “dare e avere” di un anno, ma nella singola operazione, prefigurando un conflitto tra capitale e accumulazione che è un tratto storico e, per alcuni versi, un arretramento rispetto al capitalismo che investiva in beni strumentali da cui estrarre, nel tempo, un certo margine di profitto, sfruttando anche il lavoro dipendente.
Alcuni continuano a credere che stiamo vivendo un ciclo; in realtà, stiamo vivendo la Storia (con la “esse” maiuscola). La Storia inizia sempre con delle nuove istituzioni del capitale, fossero pure embrionali. Il capitale, il lavoro e la sua rappresentanza, lo Stato diversamente declinato – difficile immaginare uno Stato nazionale nella situazione data, così come le stesse istituzioni sovranazionali –, hanno un compito paradigmatico. Il dibattitto sul peso e il ruolo dell’euro, così come l’uscita dallo stesso, è costretto dentro modelli che, come già ricordato, non fanno i conti con la Storia. Le forme di mercato contano nella formazione dei prezzi e nell’organizzazione del lavoro. Sempre che l’uscita dall’euro possa offrire un contributo alla così detta competitività italiana via svalutazione, le forme di mercato (oligopolistico) ridimensionano l’effetto positivo di un’eventuale uscita dall’euro. Un modo per ricordare che la politica economica si avvale anche delle svalutazioni, ma gli effetti sono sempre temporanei e circoscritti.
Senza dimenticare un altro e non banale punto sul quale avviare una discussione: la sterile contrapposizione fra due modi estremi di rappresentare la variazione della spesa pubblica. Da un lato, il fronte negazionista, che ha il suo corrispondente nell’attuazione delle politiche di austerità; dall’altro, un semplicistico modello pseudo-keynesiano che assicura che il moltiplicatore della politica fiscale espansiva è immediatamente e significativamente sempre superiore a uno. Sono due gli aspetti da considerare: 1) la matrice della specializzazione produttiva del Paese considerato; 2) l’accento sulla composizione della domanda nazionale di beni (effetti sugli scambi internazionali).
Dalla matrice produttiva del sistema, si evince che gli investimenti non producono i medesimi moltiplicatori. In secondo luogo, la scelta di stimolare l’investimento in un ambito è una scelta strategica che dovrebbe trasformare la matrice produttiva del Paese. In altri termini, i peggiori detrattori della valenza delle idee keynesiane sono coloro che invocano spesa pubblica indiscriminata: questa pratica impedisce, infatti, di rendere evidente che anche la spesa pubblica non ha meramente effetti congiunturali, ma altera le condizioni dell’offerta (futura) agendo sul processo di accumulazione del capitale.
Forse sarebbe utile consegnare al Paese la realtà per quella che è, evitando soluzioni a portata di mano. Se è finita un’era economica e nel mentre non si intravvedono nuove istituzioni coerenti con questo capitalismo all’ennesima metamorfosi, è il momento di liberarsi dai pregiudizi e dalle aspettative personali.