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Pubblichiamo il capitolo 5 del libro (e-book) “Workers Act, le politiche per chi lavora e per chi vorrebbe lavorare”, a cura di Sbilanciamoci!
Lavoratori “on tap”, alla spina, a gettone, usa e getta: è questa la nuova frontiera del mercato del lavoro alla quale sembra fare riferimento il Jobs Act, utilizzato da Renzi per uscire dalla tempesta della crisi. La prevaricazione massima, il rapporto di lavoro puntiforme, utilizza da noi la forma del voucher, strumento di cui progressivamente si estendono i campi di applicazione e i massimali in valore e che viene proposto ai giovani come una delle forme del percorso ad ostacoli per essere pagati nella manifestazione-vetrina dell’Expo 2015. Ma il riferimento ai workers on tap, lavoratori a singhiozzo, che in Germania ha come apripista i mini job, è parte di una costruzione sociale ed economica più ampia, un nuovo modello. In questi termini, scomodando addirittura un paragone con le teorizzazioni del modello capitalista classico di Adam Smith, ne parla il primo numero dell’anno della rivista The Economist. Non è questa, del resto, l’unica analisi che cerca di codificare la nuova economia, o meglio la nuova frontiera del sistema produttivo capitalistico, ma quella dell’Economist è senz’altro la descrizione più chiara, prendendo come esperimento in vitro e capofila della nuova tendenza il mercato del lavoro degli Stati Uniti, dove l’esercito dei lavoratori “freelancers”, arruolati in massa tra i ranghi della on-demand economy, conta già 53 milioni di persone. Secondo l’Unione dei Freelancers si tratta addirittura di un terzo della forza lavoro americana.
La loro principale caratteristica è di non avere un lavoro dipendente, anzi di non avere proprio un contratto di lavoro, mentre si chiede loro una disponibilità pressoché totale in termini di tempo, 24 ore su 24, per prestazioni a chiamata, “work on call” ma del tutto intermittenti, a singhiozzo. Si chiama lavoro accessorio, occasionale ma a ben vedere ha tutte le caratteristiche ormai di un lavoro subordinato per quanto puntiforme, specialmente se il committente è unico. In una analisi del colosso di consulenza del lavoro PrinceWaterhouseCoopers, intitolato “The future of work. A journey to 2022”, uscito lo scorso autunno, si definisce questo mercato del lavoro "orange world", sostenendo che per il momento convive con altre modalità di impiego: "green" se si fa riferimento all’imprenditoria “social”, per noi Terzo settore, o “blue” se ci si riferisce ai lavori stabili come quelli ereditati dal Novecento.
I lavoratori “on tap” possono essere iper o per niente specializzati, comunque vengono pagati a prestazione, non ad orario. Anche i nostri voucher sono definiti nel decreto del Jobs Act “buoni orari” ma senza una precisa definizione che leghi la prestazione richiesta con la retribuzione, a totale discernimento del committente. Altra caratteristica del lavoro “on tap” è l’evanescenza del datore di lavoro. A effettuare il pagamento è il “committente” della prestazione d’opera, ovvero nel caso americano direttamente il cliente, il consumatore del servizio reso, attraverso un intermediario. Così i costi di amministrazione si assottigliano fortemente. Ma questo non è il vantaggio principale. Sia che si metta sul mercato un bene (una camera in bed and breakfast a casa propria), o una attività, come fare la spesa a pagamento ai vicini, l’attore economico che organizza il tutto resta in un empireo di algoritmi, nascosto in una App sul telefonino. Senza doveri o ruolo sociale, difficile anche solo da individuare.
Ciò che viene richiesto è soprattutto un cambio di mentalità. Ognuno è, o meglio deve essere, imprenditore di sé stesso, concepire le proprie risorse come “capitale umano da valorizzare”. Dicono Pierre Dardot e Christian Laval (“La nuova ragione del mondo, critica della razionalità neoliberista”, Derive Approdi 2013) “..è in gioco la costruzione di un nuovo modello di soggettività, quella che chiamiamo oggettivazione contabile e finanziaria, che altro non è che la forma più compiuta della oggettivazione capitalista. Di fatto si tratta di produrre nel soggetto individuale un rapporto con se stesso omologo al rapporto con il capitale: il soggetto, per essere più esatti, è portato a vedere in se stesso un capitale umano da valorizzare indefinitamente, un valore da aumentare sempre più”. Una nuova ragione sociale del mondo e della vita individuale, al quale anche lo Stato, nei suoi principi e nelle sue pratiche – dicono i due autori francesi – è tenuto ad adeguarsi.
Tornando all’esempio in vitro statunitense, le company dell’economia on-demand si concepiscono sostanzialmente con un ruolo di semplici mediatori e selezionatori della manodopera, tutt’al più come promotori dell’incontro tra domanda e offerta. Anche questa versione del capitalismo concepisce, come a ben vedere quelle precedenti, la sua organizzazione sociale come “naturale” e in ultima istanza immanente. Ma essendo una versione largamente finanziaria nelle sue dinamiche principali, l’imprenditore è anonimo, pulviscolare, mentre il lavoratore è concepito come lavoratore-consumatore, talmente bifronte da inserire il suo bisogno al lavoro, anche come bisogno ad una identità sociale oltre che alla sopravvivenza, al pari degli altri suoi bisogni da reperire sul mercato. L’Economista arriva così a tipizzare la fantasmagoria del “disoccupato bohémien” che sceglie di vendere la propria abilità, o meglio le proprie diverse competenze, solo per ristretti periodi nella propria vita, provvedendo da solo ad una formazione continua e alla promozione delle stesse, attraverso social network e start-up, per rispondere al meglio alle esigenze del mercato. L’osanna del nuovo sistema prevede, prendendo a prestito una figura retorica hollywoodiana, che chi ha soldi non abbia tempo e viceversa. L’obiettivo è quello di mettere in rapporto le due parti, senza ingerenze di sindacati, legislazioni e regolamentazioni.
Si ottimizzano in questo modo, facendo il parallelo con gli effetti delle enclosures sulla disponibilità di manodopera a poco prezzo agli albori del capitalismo, le capacità economiche sottoutilizzate – dalla stanza in più messa in affitto alla macchina data per periodi a noleggio, fino alla propria capacità lavorativa che non ha trovato una collocazione stabile – accollando interamente il rischio d’impresa al singolo prestatore d’opera, che spesso mette a disposizione l’intera sua privacy, in una concezione che non prevede più una netta demarcazione tra vita e vita lavorativa.
Elemento centrale di questa smart-revolution, invocata in Italia, anche da editori di giornali e produttori di automobili, è una innovazione tecnologica che ha un impatto fondamentale sulla funzione relazionale del soggetto. Una rivoluzione tecnologica, data dall’iper connettività attraverso banda larga, wi-fi e dalla diffusione di massa degli smartphone, foriera di nuovi modelli di business, riorganizzazioni industriali e soprattutto nuove relazioni industriali, con il singolo lavoratore-consumatore come pernio.
In termini generali non si tratta solo del settore dei servizi. Tutti i mercati, anche quelli dei beni, vengono rivisitati: ciò che è fondamentale per vendere prodotti e servizi è sempre riconnetterli a una base immateriale, riconfezionare la soddisfazione dei bisogni all’interno di più lussuose o appetibili tipologie di consumo. Un tempo si sarebbe detto che l’imperativo è “valorizzare il marchio”. Nella "sharing economy" non è più il marchio, il logo, che si deve vendere ma il "brand", qualcosa di molto meno materiale, che ha a che fare con la fama e le aspettative legate al prodotto. Seguendo questa logica anche la vecchia divisione tra settore secondario e terziario sembra confondersi o ridefinirsi, almeno nel mondo Occidentale. Del resto anche nei paesi cosiddetti emergenti, nell’industria più tradizionale, i colletti bianchi sono quasi estinti, mentre nel contempo attività di consulenza, progettazione e marketing si sono specializzate e sono state esternalizzate.
C’è chi specifica – è il caso di Sasha Lobo, stratega dei brand e opinion maker tedesco – che siamo di fronte a due diversi modelli: il Plattform Kapitalismus, ovvero l’economia a chiamata dei lavoratori a gettone, l’ultima versione del liberismo nell’era digitale, e l’economia della condivisione o Sharing economy, quest’ultima basata sulla partecipazione. Ciò su cui gli analisti liberisti sono concordi è che nel futuro, se questo nuovo modello si affermerà, il contratto dipendente, stabile, a tempo indeterminato fino alla pensione, andrà a poco a poco ad estinguersi. Il mondo nuovo che viene tratteggiato è dominato da forze anonime e individui singoli, con una forza lavoro estremamente parcellizzata, dove anche i diritti sociali sanciti nelle Costituzioni nate nell’immediato dopoguerra sono considerate d’intralcio, da abolire o modificare significativamente, come nelle indicazioni di importanti società di rating internazionale. La JP Morgan scrive infatti in un documento molto citato del 28 maggio 2013 che le costituzioni nate dopo la fine delle dittature in Europa tutelano “troppo” i diritti dei lavoratori.
Una volta considerata la debolezza dei sindacati come un elemento strutturale, specialmente nel settore privato, ad oggi l’ostacolo principale per le on-demand company, negli Usa e ancor più in Europa, è dunque dichiaratamente la resistenza delle legislazioni del lavoro che incorporano ancora diritti e tutele ereditate dal mondo prima degli anni Ottanta, inserite nell’impalcatura costituzionale.
Queste aziende – capofila il gigante dell’autonoleggio Uber, fatturato un miliardo di dollari, valore stimato 40 miliardi di dollari – tendono ad impiegare personale giovane, immigrati, e anziani che non vogliono, o non possono, ritirarsi del tutto dal mercato del lavoro. Hanno comunque subìto sciami di vertenze e scioperi, negli Usa come in Olanda e in Sud-Corea, in cui i lavoratori chiedevano di essere riconosciuti come dipendenti a tutti gli effetti. Tanto che la compagnia Handy, ha inserito una clausola nel contratto di noleggio per cercare di evitare questo tipo di contenziosi.
In Italia, Francia e Spagna il consiglio degli economisti agli imprenditori è quello di utilizzare soprattutto il grande bacino della disoccupazione giovanile, facendo leva sul cuneo tra “insiders” e “outsiders”. Il problema principale resta in ogni caso quello delle coperture assicurative e pensionistiche. Pertanto anche l’Economist auspica che i governi europei mettano in piedi un sistema universalistico di sostegno al reddito che consenta la sussistenza del lavoratore intermittente nei periodi di magra. Un modo per utilizzare lo Stato come supplente anziché come soggetto regolatore. In questo senso e con questo concetto di Stato, opposto a quello teorizzato dai liberal-democratici come Polanyi e Keynes di fronte alla crisi degli anni Trenta, l’intervento statale non è concepito nella sua terzietà rispetto alle dinamiche economiche, ma come funzionale ad una parte. E quindi anche il sostegno al reddito dei lavoratori “on tap” è visto non come diritto di cittadinanza universalistico ma funzionale alla loro resa lavorativa.