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La ricerca Fim sulle condizioni di lavoro negli stabilimenti Fiat – “Le persone e la fabbrica” – realizzata con il concorso del Politecnico di Milano, fornisce un importante contributo di conoscenza e analisi sull’applicazione del Wcm e sulla percezione che di essa offrono i lavoratori. Sul World Class Manufacturing, come concetto e sistema manageriale, esistono ormai vari studi internazionali (Schonberger), e ancora di più sui modelli di produzione lean, specie se legati all’influenza del modello giapponese (Dore; Womack e Jones; Harrison; Coriat; Pascale e Athos; Fodella).
Assai di meno sono invece le ricerche, a livello empirico, sulla sua implementazione e percezione nei luoghi di lavoro (Storey e Harrison; Wright e Edwards; Delbridge). In Italia il panorama appare ancora più carente, dove invece vasta e pluridecennale è stata l’attenzione intorno alla Fiat e ai suoi modelli socio-organizzativi. In entrambi i casi (Wcm e Fiat), abbiamo avuto e abbiamo giudizi tutt’altro che omogenei, sia fra gli studiosi che fra le organizzazioni sindacali. Esistono letture ottimiste, per lo più di emanazione o contiguità manageriale (Sakiya, Ohno, Matsushita e, sulla Fiat, Romiti, Paracone e Uberto, Besusso), che enfatizzano i miglioramenti, l’empowerment, l’umanizzazione del lavoro (Bonazzi), in netta discontinuità con il passato.
Ma esistono anche letture pessimiste, o comunque critiche, in molti casi simpatetiche col mondo sindacale (Takagi, Gorz, Jurgens, Delbridge e, per la Fiat, Revelli, Cerruti e Rieser, Garibaldo, Capecchi, Filosa e Pala, Basso, Tuccino), volte a denunciarne le insidie in termini di dominio e sorveglianza, in continuità – quanto meno su questo – col taylor-fordismo. In questo scenario, la ricerca della Fim ha innanzitutto il merito di aggiornare lo stato dell’indagine empirica in Italia nell’azienda simbolo del Wcm.
E di farlo con un’indagine estremamente seria e vasta (5.000 questionari, svariati focus group, in ben 31 siti produttivi). I suoi obiettivi e campi di indagine sono sostanzialmente tre e rispondono ai seguenti interrogativi: come sono mutate le condizioni di lavoro in fabbrica; quale è la partecipazione che viene prospettata ai lavoratori; quali sono le opinioni dei lavoratori. Restano escluse dal campo della ricerca a) quegli aspetti definitori relativi al concetto di innovazione, ma soprattutto b) le relazioni industriali, sebbene alcune domande finali attengono al giudizio dei lavoratori sul sindacato.
Una scelta, questa, che consente di aggirare un tema su cui si è già alimentato un interminabile contenzioso sia teorico che sindacale, ma che a mio avviso mutila il risultato su un versante che reputo inseparabile dal paradigma socio-tecnico che si vuole descrivere. A conclusione, quello che emerge è un quadro molto ricco di informazione e di spunti d’analisi che travalicano la specificità del caso e ci interrogano complessivamente sui mutamenti del lavoro industriale: segno e direzione. Uno scenario di luci e ombre, con risultati relativamente diversificati fra i vari siti, sebbene le prime appaiono nel complesso sopravanzare le seconde.
Introdotto gradualmente nei diversi stabilimenti, a partire dal 2004-07, il Wcm costituisce in Fiat il proseguimento della fabbrica integrata, da cui eredita e affina il programma di miglioramento continuo di tutte le funzioni aziendali, con un’inedita centralità del lavoro in team. Di esso i lavoratori mostrano di apprezzare una serie di progressi, relativi all’ambiente di lavoro, al coinvolgimento con i suggerimenti, alla rotazione, alla qualità del prodotto, alla lotta agli sprechi. Tutti fattori ritenuti forieri di un accrescimento della competitività del prodotto e, dunque, delle proprie prospettive di stabilità occupazionale.
I siti di Pomigliano e Cassino spiccano per i livelli particolarmente alti di adesione, specie quando si tratta di riassumere il proprio grado di soddisfazione verso l’impresa. “Fiat è un buon posto dove lavorare” per il 97 per cento degli interpellati a Pomigliano, laddove la media del gruppo si attesta comunque ben al di sopra di quelle solitamente rilevate in indagini di questo tipo (Eurofound).
Le criticità non mancano e risiedono principalmente 1) in una maggiore saturazione dei tempi e dei ritmi di lavoro (“meno porosi” e in cui non è il alcun modo possibile distrarsi); 2) in una bassa soddisfazione per l’erogazione dei premi; 3) nello scarso riscontro dei propri suggerimenti a opera del management, 4) con un funzionamento del team work ancora carente sotto il profilo della rotazione e della discussione interna. Rispetto al sindacato, di cui la sintesi della ricerca non dice molto, “il suo ruolo appare piuttosto indefinito”, ed è visto come “agente di facilitazione dei rapporti con l’impresa”, volto a “favorire la partecipazione al Wcm”. Si evoca un linguaggio operaio che è cambiato, meno conflittualista e più partecipativo.
C’è una qualche spaccatura nei giudizi, che – secondo i curatori della ricerca – sarebbe da imputare al diverso grado di eccellenza con cui il Wcm è stato applicato nei vari stabilimenti. I giudizi più omogenei e positivi si registrano in quelli più avanzati, come Pomigliano, e tendono a riguardare gli operai indiretti e gli impiegati, giovani, più scolarizzati, che fanno rotazione. I giudizi peggiori si registrano invece fra gli operai diretti addetti al montaggio, più anziani e meno scolarizzati.
La conclusione più teorica, e a nostro avviso più controversa, alla quale giungono i curatori dell’indagine è che simili dati ci parlano di una tendenza forte e univoca all’emersione di un nuovo modello produttivo. “La fabbrica del Novecento è del tutto scomparsa”, si legge, con un salto di modello, foriero di un “netto superamento del fordismo e dell’operaio-massa”. Prendendo spunto da queste ultime e impegnative asserzioni, vorremmo sviluppare – su un piano sia generale che specifico – le nostre perplessità e obiezioni su quello che rischia di essere il principale messaggio politico di un lavoro altrimenti ineccepibile per rigore metodologico e ricchezza di informazioni.
Che la lean production prima e il Wcm ora costituiscano un radicale rovesciamento della prospettiva taylorista, lo si accennava in principio, è tesi che ha goduto e gode di un autorevole sostegno in ambito scientifico, oltre che – evidentemente – manageriale. Benjamin Coriat ci ha intitolato un suo lavoro sul modello giapponese di organizzazione del lavoro. Egli stesso, tuttavia, deve riconoscere come “la ricerca del massimo risparmio possibile di tempo di lavoro (pagato)”, ne costituisca il tratto dominante. La vera “ossessione di Ohno”, la chiama, ripercorrendo il concetto e la storia del modello Toyota.
Non si tratta, a ben vedere, di un dettaglio secondario, bensì del trait-d’union che lega, in un rapporto di sostanziale continuità e non certo di antitesi, taylorismo e toyotismo. L’antica utopia manageriale dell’organizzazione “scientifica” del lavoro, lungi dall’essere accantonata in nome di qualcos’altro, viene portata alle sue più radicali, estreme conseguenze. Investendo, insieme alla dimensione del fare e del saper fare, anche un certo atteggiamento mentale, emotivo, di auto-attivazione, di identificazione con le richieste dell’azienda. Cose che il vecchio paradigma pensava di non poter mai conseguire. Col Wcm questa auto-limitazione del capitale lascia il campo a un disegno che mira, con le buone o con le cattive, a realizzare un’integrazione e un assoggettamento “totali”. Come totale, del resto, dev’essere la qualità.
In un documento di Fiat Auto del 1989 (“Caso Toyota e Qualità Totale”) si legge: “L’asservimento del fattore lavoro (dice proprio così, ndr) alle necessità critiche del sistema azienda Fiat è inevitabile”. La questione è: come si può costituire un’organizzazione del lavoro nella quale il lavoratore si senta contemporaneamente non estraniato anche se di fatto asservito. Fiat ha oggi tre obiettivi: aumentare il livello di utilizzo degli impianti; accrescere la flessibilità del lavoro; ridurre i costi e incrementare la produttività del lavoro.
La diffusione del team-work, pur modificando e anche sensibilmente, alcuni tratti modali dell’assoggettamento al potere di comando dell’impresa, non arriva in alcun modo a incrinarne l’essenza, che altro non è se non una più integrale sussunzione del lavoro al processo di valorizzazione capitalista. Senza residui, senza porosità. Con un più elevato grado di assoggettamento spontaneo e consensuale al potere direttivo, gerarchico e disciplinare dell’imprenditore. La sfera dell’autonomia nel lavoro appare sì dilatarsi, ma su una classe decisionale rigorosamente esecutiva, in cui – con André Gorz – non sono più gli individui a operare come ingranaggi, bensì il gruppo di lavoro.
Il vero obiettivo del management consiste nell’indurre il lavoratore a “demolire le proprie astuzie”, inducendo la sensazione di un accorciamento della distanza sociale che regola il rapporti di potere in fabbrica. Che tale distanza, lungi dal ridursi, si sia invece enormemente accresciuta – proprio in concomitanza con l’affermazione di questi nuovi paradigmi produttivi – dovrebbe risultare chiarissimo alla luce di quel processo univoco che in Occidente ha prodotto una rivincita del capitale sul lavoro di proporzioni epocali.
Disuguaglianze pre-moderne, a partire da quelle reddituali fra top-management e maestranze, e precarietà generalizzata, basterebbero da sole ad attestarlo. Ma la retorica partecipazionista ha fatto molti proseliti. E così, a fronte di un ciclo lavorativo che all’assemblaggio resta sulle linee inferiore al minuto, come e peggio di alcuni decenni orsono, dobbiamo ascoltare dotte dissertazioni sul coinvolgimento cognitivo e sull’aumento dell’intelligenza diffusa del lavoro operaio.
I tempi in cui a Kalmar e Udevalla, Volvo provava a ricomporre in chiave neo-artigianale il lavoro per isole, con tempi fino a due ore, è ormai un lontano ricordo per archeologi della materia. Bonazzi, che di queste cose è stato fra i più attenti analisti, aveva l’accortezza di ricordare come alla meglio processi di tale natura interessassero non più del 10 per cento della forza operaia. E il resto? Il resto, in Fiat, si è visto applicare un nuovo sistema integrato fra metrica ed ergonomia (Ergo-Uas), in virtù del quale un operaio addetto a una postazione relativamente meno disagiata potrà vedersi indotto a un’intensificazione della sua prestazione senza precedenti.
Se un accordo del lontano 1971 stabiliva che, sotto il minuto, un operaio di linea fosse caricato per un massimale dell’84 per cento (ossia, in un minuto di lavoro, quello considerato effettivo non doveva superare i 50,4 secondi), ora – con la disdetta aziendale di quell’accordo – un operaio a basso rischio ergonomico potrà sperimentare una saturazione dell’ordine del 98 per cento (Tuccino). Analogamente, in Toyota, le operazioni in assemblaggio richiedevano, nel 1973, un minuto e 14 secondi. Nel 1989 erano scesi a 44 secondi. Dunque, il lavoro si intensifica e si accelera. Come? Eliminando ogni gesto/azione non immediatamente finalizzata a produrre valore aggiunto (“not added value activity”, Nvaa), come camminare, aspettare, posare un attrezzo, cercare, operare fuori linea. Gli accordi sindacali (separati) fanno il resto, operando sulla riduzione delle pause e ampliando la discrezionalità datoriale su orari e straordinari. Nemmeno Carlo Marx avrebbe mai potuto immaginare livelli tanto pervasivi e sofisticati, quando trattava di estrazione del plusvalore, assoluto e relativo.
Le conseguenze sul rischio per la salute sono (dovrebbero essere) facilmente intuibili. E infatti un’agenzia specializzata su questi temi (Snop), ha rilevato come l’Ergo-Uas sottostimi questi rischi. E del resto, dovrebbe indurre a qualche riflessione il dato variamente stimato, ma comunque alto intorno all’entità del numero di operai a ridotta capacità lavorativa nei siti Fiat. L’ambiente sarà pure più ovattato, come non mancano ovviamente di rilevare gli operai, alla stregua però del più insidioso aumento dello stress da surmenage e da carico cognitivo, sia per la quantità che per la velocità delle operazioni da effettuare.
La ricerca, come ricordavamo all’inizio, ha scelto di non indagare intorno all’assai controverso e dibattuto tema delle relazioni industriali. Di conseguenza, ai lavoratori non è stato chiesto di esprimersi su cosa pensano delle scelte compiute dalla Fiat o dai sindacati in questi ultimi anni. Se la cosa è stata dettata da motivi di opportunità e/o prudenza, onde evitare la riapertura di ferite tutt’ora non rimarginate, lo si può capire e anche condividere. Ma se ciò ha inteso essere il riflesso di una precisa assunzione di carattere analitico e metodologico – tipo: “Wcm e relazioni industriali si collocano su due piani chiaramente distinti e distanti” –, allora diciamo con molta nettezza che non siamo d’accordo.
I due piani sono inestricabilmente legati. Nel senso che lo sviluppo dell’uno implica ripercussioni precise sulle altre. Canonicamente: una determinata crescita a livello di forze produttive non può che avere il suo corollario nella sfera dei rapporti di produzione. Il toytismo, la lean production, il Wcm, per funzionare in quella maniera impeccabile che postulano e perseguono, richiedono la rimozione di tutto ciò che ne possa inficiare, in un modo o nell’altro, il pieno successo. Cosa? La resistenza operaia, qualunque forma esse possa assumere: la passività, una non più che perfetta disposizione psico-fisica, le assenze, le “astuzie” non condivise, il conflitto.
Se guardiamo ai contenuti dei contrastati e ormai ben noti accordi separati di Pomigliano o Mirafiori, fra il 2009 e il 2011, possiamo vedere chiaro, in trasparenza, questo progetto. Per realizzare il quale il management non esista a ricorrere a qualunque mezzo. A sovvertire, se necessario, la costituzione materiale, se non anche formale (e la Corte costituzionale rileverà anche quello), che in Italia ha retto il funzionamento delle relazioni industriali. Abbandono di Confindustria e del suo ultradecennale sistema di accordi, una completa aziendalizzazione tramite un inedito contratto nazionale di primo livello, la NewCo, con riassunzioni talmente selettive (e discriminatorie) da indurre uno statistico anglosassone ingaggiato a processo dalla Fiom a parlare di una “casualità” paragonabile a quella del metaforico terno al Lotto.
Una sequenza di atti che ha lasciato sbigottita una larga fetta della stessa dottrina giuslavoristica, e di una magistratura che sui punti essenziali non ha che potuto dare ragione alle proteste della Fiom. Mai e poi mai una rappresentanza democratica può dipendere dall’aver siglato un contratto, bensì un contratto – per potersi ritenere valido – deve poter rinviare a una rappresentatività effettiva. Pena lasciare all’impresa il potere di scegliersi non solo il proprio interlocutore negoziale, ma persino chi può avere il diritto a fare sindacato nei suoi locali. E questo, lo si dovrebbe capire anche al di là della contesa partigiana, è fuori da un ordinamento costituzionale e legale come è (ancora) il nostro.
Fiat ci prova comunque. L’esempio del resto lo aveva dato la stessa Toyota. Quando, fra il 1951 e 1953, apre un durissimo scontro e scaccia alla fine dalle sue fabbriche il combattivo e molto seguito sindacato industriale di allora, per sostituirlo con un’organizzazione corporativa aziendale, dalle forme solo pallidamente riconducibili a ciò che in Europa chiamiamo “sindacato”. La Fiat fece più o meno lo stesso quando nei primi anni cinquanta, dopo una lotta senza quartiere contro la Fiom (do you remember reparti confino?), giocò con successo la carta Fim (1955), per poi cestinarla, appena tre anni dopo (1958), creando da una sua costola ancora più collaborativa il poco glorioso Sida, di cui, altrettanto ingloriosamente, il Fismic è l’attuale figlio legittimo. Insomma, divide et impera, prima; espellere chi non ci sta e cooptare chi resta, poi.
Non è vero che al modello Marchionne di fare auto non ci sono alternative. Il caso Volkswagen ne è un esempio clamoroso. Perché se è vero che anche lì si fa un contratto di gruppo fuori dal perimetro nazionale di settore, è anche vero che lo si fa uscendo verso l’alto, per livelli retributivi e un sistema di codeterminazione che risale a una legge del 1960 e che si staglia al di sopra della per noi già inarrivabile legge tedesca in materia del 1976. La presenza quasi paritetica nel consiglio di sorveglianza, con golden share della regione della Sassonia. In più, VW sigla sei accordi di gruppo a livello mondiale – la Fiat, caso unico fra i grandi produttori d’auto, nessuno – in cui estende il suo modello a tutti gli stabilimenti del mondo. Compresi i nostri, di Lamborghini e Ducati, regolarmente firmati dalla Fiom e non anche (nel primo caso) dalla Fim, che evidentemente preferisce la “via Fiat” alla partecipazione, piuttosto che la “via Volkswagen”. Evidentemente, come si dice, ognuno ha i suoi gusti.
La ricerca, e torniamo in conclusione al punto, ci dice che i lavoratori dimostrano una cultura diffusamente partecipativa. Ma allora, perché la Fiat ha deciso di imbarcarsi in un contenzioso tanto aspro e frontale, generando proprio quel (prevedibile) conflitto che dichiarava di voler scongiurare. La risposta, a nostro avviso, è che sul medio e lungo periodo il management è conscio delle insorgenze conflittuali che i nuovi ritmi di lavoro potrebbero suscitare fra le maestranze. Le quali, passata la grande paura per i destini del loro posto, potrebbero inceppare quella gioiosa macchina da guerra che è divenuto il Wcm.
La fragilità a cui lo espone infatti il sistema del just in time potrebbe vanificare quel domino assoluto a cui concorre tutto il resto. A partire dall’exit strategy della delocalizzazione globale. Ecco perché, pochi mesi fa, Marchionne in persona si precipita in Italia per scongiurare un piccolo sciopero annunciato nei suoi stabilimenti italiani. Da qui l’enfasi sulla governabilità della fabbrica e la centralità della prevenzione del conflitto. Estromettendo la Fiom, ipotecando la rappresentanza e residualizzando (o perseguendo) lo sciopero.
Un clima di intimidazione che, con buona pace delle sentenze della magistratura, ha conseguito il risultato di scoraggiare l’adesione a quell’organizzazione, che, quando tutto è iniziato, vantava oltre 11.000 iscritti. Divenuti oggi, e francamente si capisce, un lontano ricordo. Che sia grazie a ciò che Fiat riprende oggi ad assumere, come qualcuno sottintende, ci pare tesi economicamente infondata e politicamente subdola. Solo un tempo più lungo – possibilmente fuori dall’interminabile crisi di questi ultimi 7 anni – ci consentirà di capire veramente come saranno andate le cose. E allora, raccomandiamo sin d’ora agli amici e colleghi della Fim e del Politecnico di Milano, di procedere a un follow-up di questa preziosa ricerca.
* Associazione Bruno Trentin