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A venti anni esatti dal panico globale scatenato dal Millennium bug, il Viminale e le prefetture italiane sono state trascinate in una sorta di Salvini bug. Sono gli effetti tossici del primo decreto sicurezza, quello voluto dall’ex ministro dell’Interno del governo gialloverde e mai cancellato dal governo giallorosso. Quello che ha messo fine ai permessi di soggiorno per motivi umanitari per migliaia di richiedenti asilo, e che ora sta creando non pochi problemi anche a chi deve applicarlo.
Tutto ha avuto inizio con una breve mail inviata il 19 dicembre scorso dal Servizio centrale del Siproimi (il vecchio Sprar ndr) agli enti locali “titolari di progetti Sprar/Siproimi per l’accoglienza”. In quella circolare si richiamava “l’attenzione all'art. 12 co. 6 del dl 113/2018 convertito in l. 132/2018, che prevede che i titolari di protezione umanitaria presenti nel Sistema di protezione rimangano in accoglienza fino alla scadenza del periodo temporale previsto dalle disposizioni di attuazione sul funzionamento del medesimo Sistema di protezione e comunque non oltre la scadenza del progetto di accoglienza.”. Tradotto dal burocratese, si legge: a partire dal 1° gennaio si devono trasferire nei Cas (i Centri di accoglienza straordinaria) i richiedenti asilo con permesso per motivi umanitari attualmente ospiti nei centri ex Sprar.
Il problema è che i bandi per la gestione dei Cas in molti casi sono andati deserti, e che i centri di accoglienza straordinaria non prevedono progetti di integrazione concreta. Quindi molti richiedenti asilo, anziché in zone vicine, rischierebbero di essere trasferiti anche a centinaia di chilometri di distanza. E chi dovesse rifiutarsi, potrebbe finire per strada, d’inverno, anche se si tratta di famiglie con bambini. In ogni caso, non avrebbero alcun sostegno per integrarsi nel tessuto sociale italiano. Una circolare draconiana, insomma. In piena continuità con l’impostazione del decreto Salvini, e che è stata subito bollata dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione come “incomprensibile”, “irrazionale” e “non sorretta da qualsivoglia motivazione e neppure da un riferimento normativo”.
Il Viminale non ha potuto fra altro che correre subito ai ripari. Il 22 dicembre scorso ha diramato una nota intitolata “Sistema di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati, dal Fami i fondi per dare continuità ai progetti”. “Nessuno dei 1.428 titolari di permesso di soggiorno per motivi umanitari, attualmente presenti nel nuovo Sistema di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati - si leggeva - perderà l’assistenza”. Poi è arrivato un rinvio in extremis. I tecnici del Viminale hanno trovato una soluzione tampone, attraverso una 'proroga', i cui contorni però restano a dir poco vaghi. Al termine di un incontro con l’Anci, che rappresenta gli 8mila comuni italiani, si è stabilito che “i titolari di protezione umanitaria presenti nei progetti Siproimi potranno rimanere nelle strutture anche oltre il 31 dicembre” grazie a fondi dell’Unione Europea.
La domanda che molti si pongono ora è: con quali modalità e tutele verrà attuata questa decisione? Non è affatto chiaro. Si sa solo che il Servizio centrale del ministero “fornirà le opportune indicazioni ai Comuni”. La proroga è stata salutata come “un parziale risultato positivo” dal Tavolo Asilo nazionale, che tuttavia conserva “forte preoccupazione”. La via maestra, dice la nota, è “il ritiro delle due circolari, basate su un’interpretazione erronea e illegittima del primo decreto sicurezza”, di cui da tempo il terzo settore chiede l’abolizione. Venerdì 27 dicembre, le associazioni hanno anche manifestato davanti alle prefetture di tutt’Italia, per chiedere di ripristinare lo Sprar e garantire a richiedenti asilo e rifugiati “un’accoglienza dignitosa, nel rispetto della Costituzione”.
Il lavoro di applicazione da parte delle prefetture italiane del primo decreto Salvini, però, prosegue, nonostante sia stato smontato nei mesi scorsi dalla Corte di Cassazione e da numerosi pronunciamenti dei Tar, dalla Basilicata al Lazio, fino a Brescia e da ultimo il Tar Veneto, il 20 dicembre scorso, che hanno certificato l’irretroattività della norma che ha abolito il permesso per motivi umanitari. Dalla decisione del Tar Veneto (scarica il testo) è però emersa una novità importante: le prefetture non possono negare, revocare o dichiarare “cessata” l’accoglienza ai titolari di protezione umanitaria che avevano diritto a beneficiarne prima dell’entrata in vigore del provvedimento. Tutto l’opposto dell’annunciata uscita al 31 dicembre di tutti i richiedenti che hanno lo status di protezione umanitaria.
Come ha fatto recentemente sapere Altreconomia, però, i comportamenti di diverse prefetture continuano ad andare in direzione esattamente contraria. Il mensile li ha ricostruiti grazie alla procedura dell’accesso civico generalizzato, mostrando come in tutta Italia i richiedenti asilo vengano esclusi dall’accoglienza. A Benevento, per esempio, “l’ufficio governativo ha fatto sapere ad Altreconomia che "i soggetti titolari di permesso per motivi umanitari a seguito del ritiro del citato documento perdono il diritto all’accoglienza e lasciano il centro". A Milano, dall’entrata in vigore del “decreto Salvini” al 30 settembre 2019, “308 titolari di protezione umanitaria si sono visti dichiarare "cessata l’accoglienza". Ad Arezzo almeno 208, a Pisa 155, a Cosenza 102, a Trento 88, a Lecco 82, a Palermo 78, a Brescia 60, a Potenza 59, a Fermo 37, a Chieti 34. A Roma sarebbero “circa 40, come fossero chilogrammi di patate".
L’elenco fornito da Altreconomia riguarda oltre 50 uffici per una cifra complessiva di 2.291 provvedimenti, "fortemente al ribasso rispetto alle stime di 40mila soggetti potenzialmente interessati dalle cessazioni". Mentre Treviso “non ha dati da fornire” a riguardo, la Prefettura Taranto “ha inaugurato un metodo tutto suo: non ha dichiarato alcuna cessazione ai titolari di permesso per motivi umanitari (illegittima, come visto) ma ‘attraverso incontri e note di sollecitazione, i responsabili dei Cas sono stati invitati a favorire un percorso di uscita dalle strutture di tali ospiti’”. Una specie di moral suasion, insomma, mentre il Viminale si dichiara “molto attento, in questa delicata fase, alle condizioni di vita di tutti i soggetti coinvolti e alle esigenze dei comuni italiani che li ospitano e delle organizzazioni che gestiscono i relativi progetti".