La minoranza del Pd torna a usare parole grosse contro Renzi. E accusa di incostituzionalità sia il Jobs Act (la condizione del lavoro torna a essere quella di prima degli anni settanta) che le riforme costituzionali ed elettorali in corso di approvazione (la commistione tra legge elettorale con premio di lista senza preferenze e marginalizzazione del Senato evoca scenari preoccupanti sulla qualità della democrazia). È presto per dire se ai toni guerreschi di Bersani (“non siamo figuranti”) seguirà l’ordine di rientrare nei ranghi.
Quello che è certo è che la minoranza del Pd è risultata a lungo priva di strategia, e quindi incerta, divisa. Non ha colto la portata reale del renzismo. Lo ha interpretato come un semplice avvicendamento, certo brusco e irriguardoso, ma pur sempre “normale”, alla guida del partito e del governo. Un errore fatale di analisi, accompagnato al rifiuto di ogni guerra di movimento entro il Parlamento e quindi a un accomodamento continuo, propedeutico al rapido sgonfiamento delle forze residuali.
L’area bersaniana partiva dal controllo di almeno l’80 per cento dei parlamentari, ma si è ridotta a ben poca cosa. Nei partiti di oggi sovrano è chi decide la rielezione. E quindi deputati, membri degli organismi dirigenti, sottosegretari indicati dalla minoranza sono passati in gran corsa tra le file renziane, in attesa di incentivi e conferme. Ora, a parte le tattiche che possono ondeggiare, restano interrogativi stringenti di natura strategica, che nessuna alchimia suggerita dalle opportunità potrà mai trascendere.
Se il renzismo comporta per davvero un attacco al lavoro, alla Costituzione, alla democrazia parlamentare, all’idea di partito come dimensione collettiva, oltre che il trionfo dell’incompetenza (ministri che annunciano che l’Italia è pronta a “combattere” con 5.000 soldati pronti alle armi!), occorre pur trarre delle conseguenze che diano una prospettiva politica a queste denunce. È possibile ritenere che il capo di partito e di governo incarni un’idea di società e di politica del tutto regressiva e poi far finta di nulla perché quando il partito si mantiene unito (il cosiddetto “metodo Mattarella”) non lo batte nessuno?
Il problema cruciale è questo. I dissensi che separano la minoranza Pd dal leader che marcia verso un modello di partito personale-populista non sono delle normali varietà di accentuazioni che affiorano su singole questioni programmatiche. Sono piuttosto delle fratture culturali, identitarie, che evocano forze che è arduo mantenere sotto lo stesso destino. Il problema si può esprimere in formule semplificate e brutali: potrà la sinistra Pd andare al voto sotto la guida di un leader “gasatissimo” che al sindacato sceglie Marchionne?
Se vuole evitare l’imbarazzo di assistere passivamente all’edificazione di un potere personale che naturalmente schiaccerà ogni voce di differenza interna, la sinistra Pd dovrebbe provare ora a sconfiggere Renzi approfittando delle ultime armi che si ritrova in Parlamento. Ne ha la determinazione? Se manca l’ostinazione che induce alla guerriglia in aula e alla mobilitazione sociale, allora bisogna rassegnarsi al fatto che in Europa ci sono due sinistre e in Italia neanche una.
In Europa si fronteggiano due sinistre. E in Italia?
Potrà la minoranza Pd andare al voto sotto la guida di un leader che al sindacato sceglie Marchionne? A parte le tattiche, che possono ondeggiare, restano interrogativi stringenti di natura strategica DI M. PROSPERO
3 marzo 2015 • 00:00