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Il diritto di migrare inteso anche come diritto a “entrare”, convivere, partecipare (oltre che essere diritto a “uscire”), ha bisogno in primo luogo di un modello di democrazia e di strutture di potere che facilitino i collegamenti tra lo Stato, i suoi apparati e la società civile. Per lo sviluppo delle politiche di accoglienza, di inclusione, non è sicuramente un bene quando l’obiettivo del sistema democratico si rivela esclusivamente quello di garantire la governabilità, la stabilità e – in questo contesto – la partecipazione finisce per essere considerata un ostacolo al funzionamento degli stessi apparati.
Anche le politiche finalizzate a offrire un rifugio o semplici occasioni di collocazione con un lavoro e una nuova vita vengono penalizzate da un modello di democrazia come quello che si vuole realizzare con la riforma costituzionale. È una questione di qualità della democrazia. Le migrazioni sono indiscutibilmente un fatto strutturale e non straordinario e, perciò, la questione delle mutazioni delle società va affrontata con questa consapevolezza. Tuttavia, le istituzioni continuano a ignorare questo dato, e si continua ad affrontare il tema in maniera emergenziale, con un approccio securitario, dove ai cittadini immigrati vengono sistematicamente negati diritti e cittadinanza; ne è una dimostrazione il vuoto legislativo per quanto riguarda il diritto al voto, nonché il diritto all’acquisizione della cittadinanza, che interessano milioni di persone straniere che vivono stabilmente in questo Paese.
I modelli di insediamento vanno ridisegnati, anche tenendo conto delle mutazioni che discendono dal dato strutturale delle migrazioni di donne e uomini. Per farlo servono alti livelli di partecipazione e non l’esasperata centralizzazione degli apparati e dei poteri, come previsto sempre dal disegno di riforma in questione. E come già avviene per le problematiche dei conflitti e dei contenziosi tra Stato e sistema delle autonomie locali. Il caso della sanità, a questo proposito, è tra i più emblematici, visto che già oggi molte delle decisioni di spesa in questo comparto vengono prese dal ministero dell’Economia, prima ancora che da quello della Salute, e non al contrario dalle Regioni, che di fatto sono già esecutrici di linee decise centralmente.
Non occorrono forse per gli immigrati (donne, uomini, bambini) politiche che prendano adeguatamente in considerazione le loro condizioni (di base, di vita, di area di collocazione, anche se temporanea)? Ma altrettanto importante è la questione dei servizi socio-educativi nel territorio. Come vengono disegnati? Con quale riferimento ambientale (chi sono le persone interessate, la loro educazione e formazione di partenza ecc.)? Si tratta solo di qualche esempio finalizzato a porre l’accento sul contrasto che viene a determinarsi tra l’inevitabile processo di ridefinizione delle società locali, se solo si partisse dal fatto che le migrazioni sono un fatto strutturale, e l’ipotesi di una democrazia la cui qualità è messa in discussione proprio dalla riduzione degli spazi di partecipazione.
Ottimizzazione dei risultati, efficienza ed efficacia delle politiche pubbliche non trovano un ostacolo nella partecipazione, tutt’altro. E del resto, sempre pensando alle immigrazioni: lo spirito è quello di attuare politiche o farne soltanto merce di scambio – come appare evidente in queste settimane – nella querelle contabile con le istituzioni europee?
Selly Kane è responsabile politiche per l’immigrazione della Cgil nazionale