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Dopo la riforma del 2011, tre erano le principali criticità del sistema previdenziale italiano, che la riforma aveva generato o su cui non era intervenuta: 1) requisiti per il pensionamento (di vecchiaia o anticipato) estremamente rigidi, che non tengono conto delle eterogenee necessità e opportunità dei lavoratori anziani, con ciò comportando problemi sia di equità a danno dei lavoratori con maggiori difficoltà a proseguire l’attività, sia di efficienza, costringendo le imprese a trattenere forza lavoro talvolta meno produttiva;
2) requisiti di accesso al pensionamento fortemente iniqui per chi riceverà una pensione calcolata interamente col metodo contributivo (ovvero gli entrati in attività dal 1996), dato che la possibilità di ritiro anticipato verrà concessa unicamente a chi avrà maturato una prestazione di livello medio-alto (pari ad almeno 2,8 volte l’assegno sociale);
3) l’assenza di misure utili a contrastare i rischi di inadeguatezza delle prestazioni di chi, ricevendo una pensione interamente calcolata in base allo schema contributivo (in cui, a parità di età di ritiro e di andamento aggregato di economia e demografia, la prestazione dipenderà unicamente dai contributi accumulati durante l’intera carriera), avesse avuto una carriera lavorativa svantaggiata e intermittente.
Il piano di intervento del governo italiano in ambito pensionistico – delineato nell’accordo siglato con le parti sociali lo scorso 28 settembre – sembra voler affrontare tali criticità. Per far questo, prevede due fasi. Nella prima, da definire durante il percorso parlamentare della legge di stabilità, si intende introdurre elementi che consentano flessibilità di uscita dal mercato del lavoro, superando i rigidi vincoli introdotti dalla riforma del 2011 mediante l’introduzione dell’anticipo pensionistico, la cosiddetta Ape. Nella seconda fase, che dovrebbe essere definita nel corso del 2017, si prevede, fra le altre cose, di rivedere alcune regole dello schema contributivo, nonché il ruolo della previdenza integrativa privata.
L’Ape nasce con l’obiettivo di recuperare flessibilità nel pensionamento al di là degli attuali rigidi vincoli, in base ai quali nel 2017 ci si potrà ritirare a 66 anni e 7 mesi di età o con almeno 42 anni e 10 mesi di contribuzione (un anno in meno per le lavoratrici dipendenti in entrambi i canali d’uscita). La logica dell’Ape – e in generale di qualsiasi misura che miri a consentire flessibilità nell’età pensionabile senza comportare ricadute sul bilancio previdenziale – è semplice: offrire la possibilità di ritirarsi prima a fronte di una riduzione dell’importo della pensione che compensi il fatto che, andando prima in pensione, quest’ultima verrà erogata per un numero maggiore di anni.
La formula contributiva – che, si ricordi, non si riferisce ai lavoratori interessati all’Ape, che ricevono una prestazione contributiva solo per le annualità lavorate a partire dal 2012 – si basa proprio su un principio di equivalenza attuariale: ogni anno di anticipo della pensione comporta una riduzione all’incirca del 3,2% della prestazione erogata (come verificabile osservando la variazione dei coefficienti di trasformazione del contributivo da un’età all’altra).
Fatta salva l’esigenza di tutelare alcune tipologie di lavoratori anziani (come quelli più a rischio di licenziamento o chi è in cattiva salute), per garantire flessibilità si sarebbe potuta stabilire libertà di accesso al pensionamento all’interno di una determinata fascia d’età (per esempio, 63-70), stabilendo penalizzazioni/premi dell’entità prima richiamata. Se ben definita, una misura di questo tipo non avrebbe comportato problemi per il bilancio pubblico nel lungo periodo: l’importo delle prestazioni anticipate sarebbe stato più limitato, così mantenendo invariato il saldo fra contributi e prestazioni nel lungo periodo.
Nel breve periodo, tuttavia, le uscite anticipate (e i minori contributi versati) creerebbero problemi “di cassa”, nonostante l’invarianza del bilancio “di competenza”. Le regole europee impediscono di finanziare maggiori uscite “di cassa” a fronte di minori spese future e, in base alle stime più attendibili, i maggiori esborsi nell’immediato sarebbero risultati ben superiori di quanto complessivamente preventivato dal governo nel pacchetto di misure previdenziali. Per tale ragione, la via più razionale per recuperare in modo strutturale flessibilità nell’età pensionabile non è risultata percorribile e, per aggirare le regole di bilancio europeo, il governo ha individuato la strada del “prestito ponte” erogato da banche private (che permette di non incidere sul bilancio pubblico) per gli anni che intercorrono dal momento dell’anticipo fino al conseguimento dell’età pensionabile.
Questo prestito sarà rimborsato nei 20 anni successivi, con riduzioni delle rate di pensione. Ma se in termini attuariali la riduzione della pensione avrebbe potuto limitarsi a poco più del 3% per ogni anno di anticipo, ricorrere al sistema creditizio incrementa i costi dell’operazione, dato che al costo attuariale dell’anticipo vanno ad aggiungersi gli interessi sul prestito e la spesa per assicurare le banche dal rischio che il lavoratore muoia prima dei 20 anni e non riesca quindi a rimborsare integralmente il prestito (il debito per il “prestito ponte” non può infatti essere ereditato).
In ragione di ciò, il costo per ogni anno di anticipo lievita fino a circa il 6%, così rendendo molto meno appetibile la scelta del pensionamento anticipato. In realtà, il governo sembra intenzionato a farsi carico – mediante detrazioni fiscali – di parte dei costi per interessi e assicurazione facendo scendere il costo annuo a circa il 4,5-5%. L’entità della riduzione appare però tale da rendere molto probabile che l’Ape “volontaria” – che si potrà ottenere a partire dai 63 anni d’età con almeno 20 di contribuzione – verrà scelta da un numero molto esiguo di lavoratori anziani.
Meritoriamente, in aggiunta all’Ape “volontaria” (scelta dal lavoratore) e a quella “aziendale” (in cui parte dei costi vengono sostenuti dalle imprese che intendono porre in esubero lavoratori anziani), il governo, riconoscendo l’eterogeneità delle condizioni dei lavoratori anziani, ha previsto di introdurre anche una forma di Ape “agevolata” (o “sociale”) a tutela di alcune categorie più deboli, stabilendo che per tali categorie il costo dell’anticipo sarà interamente a carico del bilancio pubblico, senza dunque penalizzazioni sull’importo della pensione. La valutazione dell’efficacia dell’Ape “sociale” è però indissolubilmente legata ai dettagli sui requisiti richiesti per poter accedere a tale prestazione.
In base a quanto è emerso in questi ultimi giorni, al fine di contenere l’esborso per il bilancio pubblico, il governo sarebbe intenzionato a consentire l’accesso agevolato alla pensione anticipata, a partire dai 63 anni d’età, e in presenza di prestazioni di importo lordo mensile non superiore a 1.500 euro, unicamente a disoccupati, disabili o parenti di disabili che abbiano maturato almeno 30 anni di contribuzione o a chi svolge attività gravose (ancora da definire nel dettaglio) con almeno 36 anni di contribuzione. La combinazione di una soglia d’importo relativamente limitata e di un’elevata anzianità contributiva riduce sensibilmente la platea di potenziali interessati all’Ape “sociale” (per esempio, ben poche lavoratrici in situazioni a rischio vantano un’elevata anzianità contributiva).
I vincoli delle regole europee, prima, e la scelta di ridurre l’impatto sul bilancio corrente, poi, sembrano aver impedito di affrontare in modo adeguato la prima delle criticità richiamate in apertura e, quindi, di definire regole che consentano ai lavoratori un pensionamento “flessibile”, senza penalizzazioni eccessive e tutelando maggiormente chi è a maggior rischio. Se ci limitiamo a valutare l’introduzione dell’Ape a partire dallo status quo delle regole post 2011, tale misura non può essere valutata che positivamente dato che, seppur con i limiti qui sottolineati, essa offre ai lavoratori anziani un’opportunità in più. Se però con l’Ape si intendeva dare soluzione definitiva alle iniquità e inefficienze generate dall’incremento dell’età pensionabile stabilito nel 2011, il giudizio positivo si attenua notevolmente.
Rispetto alla seconda fase del piano del governo sulle pensioni, i punti interrogativi sono ancora più numerosi, dato che finora ci si è limitati a elencare alcuni obiettivi di principio. È vero che l’esecutivo sembra intenzionato a cancellare la norma che nel contributivo offre la possibilità di ritiro anticipato solo a chi ha prestazioni pari ad almeno 2,8 volte l’assegno sociale e, soprattutto, sembra riconoscere la necessità di introdurre una “pensione di garanzia” che tuteli nel contributivo i lavoratori con carriere discontinue e poco remunerative (recuperando una proposta presentata qualche anno fa da chi scrive). Tuttavia, a fronte di tali aspetti positivi, il governo appare intenzionato a proseguire su strade che si sono finora rilevate inutili o dannose.
Da una parte, infatti, si suggerisce una strategia di incremento delle adesioni alla previdenza integrativa, senza riconoscere che l’incremento dell’età pensionabile ha modificato radicalmente la convenienza della previdenza integrativa per chi appartiene allo schema contributivo. Chi riuscisse ad avere vite lavorative lunghe e con salari dignitosi otterrebbe dal sistema pubblico coperture adeguate e l’integrazione privata non risulterebbe necessaria (a meno di voler approfittare delle sostanziali agevolazioni fiscali, sovente di carattere regressivo, concesse a chi partecipa alla previdenza integrativa). Al contrario, in assenza di interventi di sostegno alle loro pensioni, i lavoratori caratterizzati da carriere frammentate e poco remunerate potrebbero beneficiare di un’integrazione da fonte privata.
Tuttavia, i lavoratori con carriere “a rischio” tendono “razionalmente” a non partecipare alla previdenza integrativa per molteplici ragioni: la presenza di vincoli amministrativi sull’adesione ai fondi collettivi, l’assenza di Tfr per i parasubordinati, il maggior onere in termini di costi amministrativi, che nei fondi gravano su chi ha storie contributive frammentate, e soprattutto l’esistenza di stringenti vincoli di liquidità per chi ha retribuzioni basse e/o contratti di durata limitata, che riducono la propensione al risparmio di lungo periodo.
Dall’altra parte, il governo sembra associare l’idea dell’introduzione di una pensione di garanzia a una riduzione dell’aliquota contributiva per abbassare in modo strutturale il costo del lavoro. Ma il tipo di decontribuzione a cui ci si riferisce appare fortemente criticabile, in quanto favorirebbe la riduzione delle prestazioni pubbliche, comporterebbe un immediato costo per il bilancio pubblico – per la necessità di reperire risorse per finanziare parte della spesa pensionistica corrente – e, soprattutto, non sarebbe sufficiente a migliorare la qualità dell’occupazione e a stimolare una conversione della struttura produttiva italiana, così concretandosi in una mera redistribuzione dai salari ai profitti.
Alla luce di quanto detto, si può prevedere che il cantiere delle pensioni rimarrà aperto ancora a lungo dato che, al momento, non si intravedono misure capaci di correggere in modo strutturale i nodi del sistema pensionistico italiano, senza, per giunta, crearne di nuovi.
Michele Raitano è ricercatore di Politica economica nel Dipartimento di Economia e Diritto della Sapienza Università di Roma