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In molti conoscono la libreria Billy, il tavolino Lack, l'armadio Pax. In pochi invece, fino a qualche giorno fa, conoscevano Marica Ricutti di Milano e Claudio Amodio di Bari: due lavoratori, due genitori, due persone che quei mobili ogni giorno li classificano, li accatastano e ce li vendono.
La storia del licenziamento per “giusta causa” di Marica, 39 anni, separata, madre di due figli piccoli, di cui uno disabile, ha fatto scalpore. Era impiegata all’Ikea di Corsico, periferia di Milano, dal 1999, non aveva mai ricevuto un richiamo e nemmeno una contestazione sulla sua professionalità. È stata messa alla porta per due ritardi di due ore ciascuno causati dall'esigenza di accompagnare suo figlio in un centro medico per le necessarie terapie. Ikea si è difesa affermando che “negli ultimi 8 mesi Ricutti ha lavorato meno di 7 giorni al mese. Nell’ultimo periodo, in più occasioni, si è autodeterminata l’orario di lavoro senza alcun preavviso né comunicazione di sorta, mettendo in grave difficoltà i colleghi”. E ancora: “Da lei gravi episodi di insubordinazione”.
Dopo poco più di 24 ore, però, lo stabilimento Ikea di Bari ha licenziato anche Claudio, quarant'anni, di Monopoli, anche lui con due bimbi piccoli. Era dipendente da quasi 11 anni, e in questo caso il motivo del licenziamento sono 5 minuti in più nella pausa di mezz'ora regolarmente timbrata.
Due licenziamenti clamorosi in due giorni. Allora viene da domandarsi: cosa sta succedendo in Ikea? E in primo luogo si scopre che è un algoritmo a decidere i turni di lavoro per i 6.500 dipendenti del colosso dell'arredamento svedese in Italia. Lo fa una volta ogni sei mesi, a settembre e a marzo, sulla base di un disegno prestabilito, determinato dal flusso dei clienti, dal numero dei lavoratori impiegati e dalle esigenze di ogni singolo reparto. In questi ingranaggi sono finite le vite, sia professionali che private, di Marica e di Claudio.
Ma c'è di più. Perché qualcosa negli ultimi tempi è cambiato nella strategia di Ikea. Le storie dei due licenziamenti appaiono infatti come la punta di un iceberg ben nascosto tra gli scaffali. I problemi, in effetti, non riguardano solo gli stabilimenti di Bari e Corsico, ma quelli di tutta Italia. A Padova, ad esempio, il numero dei lavoratori che Ikea chiama co-workers, secondo i sindacati, è sceso da 450 a 350, il tempo parziale di lavoro (che oscilla tra 24 e 30 ore settimanali) riguarda il 70% della forza lavoro, della quale il 65% è femminile. Il salario medio è compreso tra i 900 e i 1.200 euro, mentre in Svezia lo stipendio medio per un dipendente del commercio oscilla tra i 2.500 e i 3.000 euro.
“L'atteggiamento di Ikea nei confronti dei lavoratori italiani e dei sindacati è cambiato radicalmente negli ultimi mesi”, conferma Marco Beretta, segretario generale della Filcams Cgil di Milano, il sindacato che ha impugnato il licenziamento di Marica Ricutti e che il 5 dicembre sarà davanti allo stabilimento di Corsico per un sit-in di protesta. “Prima c'è stata la disdetta del contratto integrativo del 2015, poi un cambio di passo importante che ricade tutto sui dipendenti. È una nuova strategia che considera i lavoratori al pari dei mobili che vende, non so come altro definirla”.
Un programma che, a quanto pare, si inserisce anche nello spazio lasciato vuoto nell'intero settore dal mancato rinnovo del contratto nazionale con Federdistribuzione e dalle norme liberiste messe in campo dal Jobs Act. “Ma Ikea ci mette del suo – afferma Fabrizio Russo, segretario nazionale della Filcams –. La vertenza ha avuto origine nel 2015, quando il colosso svedese ha disdettato il contratto integrativo aziendale. Da quel momento si è passati da un'impostazione molto nordeuropea a una parecchio italianizzata”.
Il contratto integrativo che è venuto dopo, infatti, non è stato nemmeno applicato e Ikea ha colto la palla al balzo per adottare un nuovo modello organizzativo, stravolgendo orari e mansioni dei lavoratori. “Una modifica profonda e unilaterale della vita quotidiana dei dipendenti – continua Russo – messa in atto da un momento all'altro, senza nessun confronto con il sindacato”.
Da quel momento sono cominciati i problemi. “Storie come quelle di Claudio Amodio e Marica Ricutti sono da tempo all'ordine del giorno – conclude Russo –. Sono solo i casi più eclatanti di una serie che andiamo denunciando da due anni. E questo succede perché in Ikea non possiamo più discutere di organizzazione del lavoro”.
Ikea ha cercato di difendersi dal clamore mediatico di questi giorni. ”Siamo da sempre un’azienda sensibile e rispettosa delle diversità – mette in chiaro in una nota –. Questo atteggiamento è frutto della consapevolezza che le differenze di genere, orientamento sessuale, provenienza, età e anzianità aziendale sono elementi di sviluppo culturale individuale e collettivo".
Eppure i lavoratori sono senza contratto nazionale e senza contratto integrativo, mentre i sindacati non hanno alcuna voce in capitolo. È proprio così che le persone diventano come i Billy, i Lack e i Pax: da smontare e rimontare a seconda delle esigenze.