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Soltanto 10 mesi fa, i media declamavano l’uscita della Grecia della crisi, grazie ai primi dati di Pil positivi (+ 0,6%, un po’ come l’Italia...) dopo una recessione durata 7 anni. In un report, la Commissione europea rivendicava gran parte dei meriti, evidenziando il successo finale delle politiche di austerity e del programma di riforme strutturali, su cui si riconosceva la Grecia avesse fatto significativi passi in avanti.
Il 30 giugno 2015 la Grecia ha dichiarato sostanzialmente default sul debito nei confronti del Fondo monetario internazionale ed è fuori dai programmi di aiuto dell’Unione europea, mentre il fallimento della trattativa con l’Eurogruppo e l’escalation delle tensioni finanziarie sui mercati internazionali per via dell’imminente “Greferendum” stanno gettando di nuovo un’ombra sulla tenuta dell’Unione monetaria.
Come si è potuto passare da un estremo all’altro con così tanta rapidità, nonostante il quadro macroeconomico europeo sia migliorato e sia stato avviato anche il Quantitative Easing della Bce di Mario Draghi? Sebbene si possa tacciare il nuovo governo greco guidato da Alexis Tsipras di scarsa diplomazia o addirittura di avventatezza, bisogna riconoscergli il merito di avere smascherato l’elefante nell’armadio: l’enorme e insostenibile debito pubblico della Grecia.
Al di là delle riforme strutturali e dell’aggiustamento dei conti, la cura della Troika fatta di prestiti a lungo termine e austerity, ha fallito nel porre sotto controllo il fardello principale che affligge l’economia greca e che continuerà a impedirne una reale ripresa anche in futuro. Il rapporto debito-Pil del paese ellenico, da un non lungimirante valore del 140% nel 2010, anno del primo salvataggio, è passato a oltre il 180% nel 2015, nonostante nel 2012 sia stata portata a termine (principalmente a spese delle banche e dei fondi pensione greci) anche una sostanziosa riduzione del debito di oltre 100 miliardi di euro.
Un elemento-chiave è che dei 312 miliardi attuali del debito greco, oramai quasi il 70% è stato acquistato dalle istituzioni europee (il Fondo Salva-Stati Efsf, la Bce) e dai governi; pertanto, qualunque riduzione del valore del debito che lo riporti a livelli più sostenibili – cioè ripagabili dal contribuente greco – dovrà essere coperta a livello europeo. Ecco perché la Merkel e l’Eurogruppo fanno orecchie da mercante su questo tema: i costi politici di una reale risoluzione della crisi greca rischiano di essere elevati, soprattutto per i partiti che hanno fatto della difesa esclusiva degli interessi nazionali un passpartout per raggiungere posizioni di governo.
Eppure i costi finanziari di una ristrutturazione del debito greco non sarebbero così tremendi: il sistema di garanzie dei governi europei che protegge i 140 miliardi di euro del debito in mano al Fondo Salva-Stati consentirebbe l’emissione e il rimborso di obbligazioni del Fondo Efsf in maniera regolare, anche se la Grecia non fosse in grado di onorare il debito. Peraltro, già adesso, Atene non dovrebbe né rimborsare, né pagare gli interessi al Fondo Salva-Stati prima del 2022. E non solo. I 35 miliardi di titoli greci nel bilancio della Bce, che non fruttano interessi, non provocherebbero necessariamente delle perdite finanziarie per i governi dell’Eurozona.
Rimarrebbero gli 80 miliardi prestati direttamente dai governi (10 dall’Italia) alla Grecia, che potrebbero essere agevolmente gestiti, consentendo per esempio al Fondo Efsf di rilevarli in toto, insieme ai 20 miliardi di euro che il governo di Tsipras deve ancora al Fondo monetario internazionale. Una completa “europeizzazione” del debito greco dunque, che consentirebbe di guadagnare tempo e di predisporre un’adeguata soluzione di ristrutturazione, senza effetti negativi immediati per nessuna delle parti in causa.
Quanto vale realmente il debito greco nelle mani dell’Europa? La risposta sta sul mercato: sebbene i titoli in circolazione siano oramai limitati, il mercato sta esprimendo una valutazione chiara attraverso lo spread: chi compra e vende per professione attività finanziarie ritiene che il debito greco abbia il 90% di probabilità di non essere ripagato interamente; il valore dei titoli greci risulta di conseguenza dimezzato rispetto a quello nominale.
Le autorità europee dovrebbero dunque accettare la realtà e valutare il debito nei propri bilanci al valore effettivo stimato dal mercato, cioè il 50% circa, “abbonando” al governo greco la differenza. Questo consentirebbe immediatamente di riportare il rapporto debito-Pil sotto controllo, abbattendolo dal 180% attuale fino a “valori tedeschi”, intorno al 75%. Una moratoria che “pre-consolidi” il debito all’interno del Fondo Salva-Stati è apparsa anche nelle pieghe della proposta in extremis di Tsipras all’Eurogruppo, che avrebbe potuto evitare il referendum. È stato un peccato che la Germania, con il supporto del governo italiano, abbia affossato una proposta che avrebbe potuto essere una base utile per un accordo definitivo, come lo stesso Hollande si era augurato. Anche se, a onor del vero, la Germania avrebbe potuto bloccare da sola la proposta, avendo la quota di maggioranza relativa nel Fondo Salva-Stati.
Ora in realtà si va a grandi passi verso il referendum, il cui esito è assolutamente incerto, così come lo sono le conseguenze. Una vittoria del sì significherebbe la sicura fine politica del governo Tsipras, sostituito da un governo tecnico che accetterebbe il bail-out della Troika a condizioni molto peggiori di quelle che erano state offerte a febbraio e in condizioni economiche di assoluta emergenza; in un contesto di recessione e deflazionistico infatti la nuova cura Troika, che tanto assomiglia alla vecchia, non funzionerà, e accelererà gli eventi verso un nuovo focolaio di crisi incentrato sulla ristrutturazione del debito che ora si cerca di ignorare.
Se vincerà il no, sicuramente si potrebbe rischiare la deriva finale che porterebbe la Grecia all’istituzione di una moneta parallela; auspicabilmente però questa pronuncia democratica del popolo greco potrebbe essere un momento di riaggregazione dei paesi dell’Eurozona intorno a una soluzione possibile di ristrutturazione del debito concordata, che possa salvaguardare i creditori quanto possibile e reintegrare l’economia del paese ellenico all’interno dell’Eurozona verso un percorso di crescita comune.
Un obiettivo perfettamente raggiungibile per il popolo greco, ma finora negato da assurde e inefficaci politiche di austerity. E chissà, magari risolvendo la crisi della Grecia, anche i mercati finanziari inizieranno a credere nuovamente nell’Eurozona e quindi a scommetterci; il che equivale a dire a operare per far convergere le curve dei tassi d’interesse degli Stati membri e quindi per ridurre lo spread, che come sappiamo è la grande anomalia della nostra area valutaria e la base dell’inesorabile disgregrazione a cui da anni stiamo assistendo.
*Docente di Finanza matematica alla Bocconi di Milano