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Nel 2013 gli stabilimenti della Fiat in Polonia, Serbia, Ungheria e Turchia hanno prodotto 390mila vetture, contro le 386mila automobili uscite dalle fabbriche italiane. L'anno scorso c'è stato il sorpasso: gli stabilimenti esteri del Lingotto hanno superato quelli nel nostro paese. Per il 2014 si conferma la stessa tendenza. E' quanto emerso oggi (16 dicembre) dalla presentazione di RadiograFiat, l’indagine della Fiom Cgil sugli stabilimenti italiani di Fiat Group Automobiles e Cnh Industrial, presentata in conferenza stampa a Roma.
La ricerca è stata illustrata da Davide Bubbico, docente di Scienze economiche e statistiche all'Università di Salerno. "Nel primo trimestre 2014 - ha spiegato il professore - il 46% delle vetture vendute in Italia è stato prodotto all'estero, un dato che viene confermato anche a novembre. La quota di mercato di Fca nel periodo gennaio- novembre è scesa in Italia dell'1%, mentre i costruttori esteri sono cresciuti dei oltre il 5%". Risultato deludente per il marchio Jeep, che "ha venduto solo 10mila modelli".
Alla fine del primo trimestre 2014, in Italia la Fiat ha 65mila dipendenti e il 51% della forza lavoro è coinvolto in qualche forma di ammortizzatori sociali: 33,3% cigs, 7,5% solidarietà, 10,2% cig ordinaria in modo prolungato. "La Fiat accede ancora a contributi pubblici per singoli progetti - ha rilevato Bubbico -. Come attività di ricerca e sviluppo, poi, emerge che manca l'integrazione tra Italia e Stati Uniti. In particolare, non si integrano le strutture di ricerca tra Fiat e Chrysler".
Dalla rilevazione, inoltre, "emergono fatti significativi: quando gli stabilimenti vanno a pieno regime (ovvero senza cassa integrazione), la produttività del lavoro è molto elevata. Se consideriamo la produzione giornaliera sulle singole righe, si riscontra chiaramente un livello alto di produttività. Dall'altra parte ci sono ormai stabilimenti con organici molto ridotti, come Mirafiori e Cassino. L'idea della Fiat - dunque - è avere stabilimenti con organici estremamente ridotti e insieme molto produttivi. Delegare all'Europa dell'Est la produzione di utilitarie rischia di creare un problema su come utilizzare tutta la forza lavoro disponibile, dunque un nuovo ricorso alla cassa integrazione".
La ricerca "è la ricostruzione del punto di vista di chi, come la Fiom, opera sul territorio. Questa fotografia vuole diventare una base che ogni 3-4 mesi sarà aggiornata. Vogliamo supportare il nostro ragionamento di questi anni: la Fiat come la conoscevamo oggi non c'è più". Lo ha detto il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini, commentando l'indagine. Attualmente, ha aggiunto, "non c'è solo il problema della sede legale che non è più in Italia, ma c'è proprio un nuovo sistema industriale che opera nell'auto e nella componentistica. Questo non è stato colto, soprattutto dal governo".
"Oggi, senza cassa integrazione e ammortizzatori sociali, saremmo di fronte a carichi produttivi che danno lavoro alla metà delle persone. Sono aumentati ritmi e carichi di lavoro: ovvero le persone lavorano meno giorni, ma lavorano più di prima". Landini ha lanciato un allarme: "Con il cambio di piano della Fiat c'è il rischio concreto che i numeri non garantiscano gli attuali livelli occupazionali - a suo avviso -. Un rischio che aumenta con la fine della cassa integrazione, tenendo conto anche delle misure del governo che vogliono cambiarla. L'altra preoccupazione è sul numero limitato dei modelli e la scarsa innovazione dei prodotti. Per esempio, lo sviluppo fondamentale dell'auto elettrica è trasferito completamente negli Usa".
Landini ha quindi concluso: "Bisogna aprire una discussione seria, coinvolgendo il governo: finora siamo in totale assenza di una politica industriale per questi settori. Il modello Fiat non può diventare il modello per la politica industriale del paese, perché così rischiamo di accompagnare un ulteriore impoverimento della nostra capacità industriale".