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Ha preso il via a Torino il processo Eternit bis, relativo alle morti provocate dalla multinazionale dell’amianto in 25 anni di attività (l’arco di tempo preso in considerazione è 1989-2014) negli stabilimenti di Casale Monferrato (Alessandria), il vero epicentro della tragica vicenda, Bagnoli (Napoli), Cavagnolo (Torino) e Rubiera (Reggio Emilia).
Il nuovo procedimento, che riguarda il decesso di 258 persone (ex lavoratori e residenti) per malattie asbesto-correlate, sta entrando in questi giorni nel vivo e il 21 maggio è prevista la terza udienza preliminare. Il tutto a poco più di sei mesi dalla sentenza della Cassazione che ha annullato per prescrizione la condanna inflitta in primo e secondo grado all’imprenditore Stephan Schmidheiny per disastro ambientale.
Questa volta però è diverso. Questa volta l’accusa è di omicidio volontario, un reato che non corre il rischio di prescrizione. E come potrebbe essere altrimenti? Dalle testimonianze rese nei precedenti giudizi intentati contro il magnate svizzero è emerso con chiarezza che l’Eternit, in poco meno di un secolo di presenza nel nostro paese, non si era mai presa il disturbo di informare i propri dipendenti – tenendo di conseguenza nascosta la verità alle popolazioni residenti nei pressi delle sue fabbriche – dei rischi per la salute che questi correvano a causa dell’esposizione alla polvere d’amianto.
Sembra incredibile, ma è proprio così. Nessuno, al momento dell’assunzione, aveva spiegato agli ex operai e agli impiegati della multinazionale i pericoli a cui andavano incontro. Centinaia e centinaia di poveri cristi che, con l’asbestosi conclamata, hanno continuato a lavorare per anni – fino alla chiusura dei siti Eternit presenti in territorio italiano (più o meno tutti alla metà degli anni ottanta) – in reparti avvelenati dalla fibra killer.
È proprio questa, del resto, la tesi formulata dai pm Raffaele Guariniello e Gianfranco Colace e su cui hanno impostato il nuovo processo: Schmidheiny, pur conoscendo il problema, fece poco o nulla per modificare le “enormemente nocive condizioni di polverosità” nelle fabbriche, portando avanti una “politica aziendale” che ha provocato nel tempo una “immane esposizione ad amianto di lavoratori e cittadini”. Il tutto per “mero fine di lucro” e “con mezzo insidioso”.
Se questo è lo scenario, non ci vuole molto per capire che a ben poco può servire la decisione degli avvocati del miliardario di puntare tutto sul principio del “ne bis in idem”, vale a dire che nessuno per legge può essere processato due volte per lo stesso fatto. Perché a contrapporsi ai cavilli giuridici – pur se enunciati in latinorum – di una difesa in evidente stato di difficoltà, oltre alla constatazione, più che evidente, che i reati a giudizio sono completamente differenti (disastro ambientale e omicidio volontario, appunto), ci sono i freddi numeri di una tragedia che sembra non conoscere ancora la parola fine.
È noto infatti che ancora oggi in Italia, considerando oltre ai mesoteliomi anche i tumori del polmone e i morti per asbestosi, è possibile dimensionare il fenomeno dei decessi per malattie asbestocorrelate intorno ai 3.000 casi l’anno. Solo a Casale Monferrato – 35.000 abitanti – si registra, a 30 anni dalla chiusura dello stabilimento, una media di un morto a settimana. Non solo. A peggiorare il quadro fin qui descritto, concorrono anche le stime di autorevoli istituti scientifici, secondo i quali la triste contabilità delle vittime è purtroppo destinata a crescere: nell’Europa occidentale le proiezioni relative alla mortalità da amianto prevedono 500.000 decessi nei primi 30 anni del 2000.
Il fatto è che tra l’esposizione all’asbesto e i suoi esiti nefasti, in particolare il mesotelioma, possono trascorrere più di 40 anni. Il processo contro i responsabili dell’Eternit ne è testimonianza, la più nota, certamente non l’unica. Per questo è importante che, a partire dal nostro paese, si evidenzi al più presto in contrapposizione all’attuale quadro normativo una risposta forte dello Stato (che, intanto, non si è nemmeno costituito parte civile al processo che si è aperto a Torino).
Può servire il tanto atteso ddl finalizzato a introdurre il reato di disastro ambientale? Anche se non potrà avere delle ricadute dirette nel processo in corso, sicuramente sì: a patto però che il legislatore riformuli al più presto il testo dell’articolato nel passaggio in cui si prevede che il reato in questione è da considerarsi consumato fino al termine dell’attività inquinante. È evidente infatti che, senza una previsione che delimiti l’atto delittuoso alla cessazione del disastro (nel caso dell’inquinamento da amianto, come visto, una necessità), qualsiasi altro giudizio per reati ambientali rischierebbe – come nel precedente contro le malefatte di Stephan Schmidheiny – la prescrizione.