PHOTO
Non ho più lacrime. Dopo la morte di Maria Rosa, mia figlia, non sono più la stessa. Quando lei è venuta a mancare, nel 2004, non sono riuscita a piangere. L’amianto si era portato via la cosa più cara che avevo al mondo. Non mi sembrava possibile. Il mesotelioma era tornato a colpire ancora la mia famiglia. Per la quarta volta. Senza considerare le morti tra gli amici più cari e i vicini di casa: quelle ormai ho smesso di contarle. Il primo ad andarsene è stato mio marito. In quell’occasione, ho provato il primo vero grande dolore della mia vita. Lui si chiamava Mario Pavesi, aveva lavorato per 17 anni all’Eternit, al reparto lastre, ma quando nel febbraio dell’82, a 60 anni, si è scoperto ammalato era già in pensione. La fabbrica avrebbe chiuso quattro anni più tardi.
Ad Alessandria, all’istituto Borsalino, gli riscontrarono il 34 per cento di asbestosi. La cosa sembrava finita lì, ma lui continuava a soffrire di mal di schiena e aveva una gran paura di farsi controllare, perché si era reso conto che da qualche tempo i suoi colleghi si ammalavano e morivano. Grazie alla mia insistenza, andò a farsi visitare all’ospedale di Casale, dove gli diagnosticarono il mesotelioma. Nonostante fosse molto forte, nonostante inizialmente funzionasse su di lui la chemio, Mario visse ancora per poco più di un anno, fino al maggio dell’83, dopo essere passato per un calvario di sofferenze, perché il suo era un mesotelioma di quelli definiti «senza liquidi». I peggiori.
Ben presto, al grande dolore si sostituì in me la rabbia. Una rabbia tremenda. Mi sembrava incredibile che si potesse morire di lavoro. Proprio lui, che era sopravvissuto alla guerra e a mille difficoltà e che in fabbrica, nel suo ruolo di delegato sindacale, si era sempre dato da fare per tutelare la salute dei suoi compagni di lavoro. Un’assurdità. Per questo nell’86 sono andata alla Camera del Lavoro e ho chiesto: «In cosa posso rendermi utile?». È nata così la mia collaborazione con un gruppo di sindacalisti della Cgil che con il loro lavoro paziente hanno aperto a me e a tanti la strada dell’iniziativa civile, affinché si arrivasse a dimostrare chi ha torto e chi ha ragione in quest’assurda vicenda. È stato allora che sono venuta a conoscenza del fatto che, a causa dell’amianto, potevano ammalarsi anche i cittadini, non solo i lavoratori dell’Eternit. E, del resto, per tanti anni c’era stato nella nostra città quell’osceno via vai di trenini e di camion che dalla fabbrica avevano trasportato i manufatti tossici. Per non parlare della vendita degli scarti dei prodotti, che gli operai utilizzavano per pavimentare i cortili o per coibentare le loro case.
Mi fu chiesto quasi subito di assumere l’incarico di presidente della nascente Associazione familiari vittime amianto. Io non mi sentivo ancora pronta, ma alla Camera del Lavoro mi assicurarono che non mi avrebbero lasciata sola, che mi avrebbero aiutata. E così accettai. Era l’87, credevo di aver pagato fino in fondo il mio prezzo. Non potevo nemmeno immaginare quale serie di tragedie si sarebbe abbattuta ancora sui miei cari. Per altre due volte, tra la morte di mio marito e quella di mia figlia, ho pianto a causa dei terribili effetti dell’amianto. Nell’89, sette anni dopo la scomparsa di Mario, si è ammalata mia sorella Libera, che è morta dopo 16 mesi di sofferenze. Aveva due anni meno di me, 59 quando se ne è andata. Lei, come me e come le altre tre nostre sorelle, faceva i «mestieri» in casa d’altri. Niente a che vedere con l’Eternit, dove non aveva mai messo piede. Libera è stata un esempio per tutte noi: ha voluto essere sempre informata sulla sua malattia, affrontando con coraggio le sessioni di chemio e radioterapia. La sua tragica esperienza ha rafforzato la mia volontà d’impegnarmi nella lotta contro l’amianto a Casale. Soprattutto in quella per la bonifica. Una battaglia lunghissima, che solamente in tempi recenti ha visto dei risultati concreti.
Con la scomparsa di mia sorella, pensavo che la cattiva sorte avesse finito di perseguitarmi. Niente di più sbagliato. Nel dicembre 2003 muore per mesotelioma pleurico mio nipote Giorgio Malavasi, il figlio di Libera. Aveva 50 anni, stava male da qualche tempo, il fisico minato da vecchi disturbi, oltre che da un’intossicazione rimediata nella fabbrica dove lavorava da anni, fino al colpo di grazia provocato dal minerale killer. È difficile dire se mio nipote rientri nella casistica dei cittadini vittime dell’asbesto o in quella dei morti sul lavoro. Io so per certo che anche nella sua azienda, la Tubigomma, che stava sempre qui a Casale, l’amianto era utilizzato nel ciclo produttivo.
La perdita di Giorgio rappresentò per me un colpo durissimo. L’ennesimo. Cominciai a pensare che la mia famiglia fosse vittima di un maleficio. Non riuscivo a capire. Quello che da qualche anno stava succedendo, aveva dell’incredibile. Molti dei miei parenti avevano lavorato all’Eternit, a cominciare da mio padre e da uno dei suoi fratelli, che nella fabbrica di Salona d’Isonzo erano stati per 23 anni, prima di fare ritorno in Italia nel ’47, quando quella parte di Slovenia fu annessa alla Jugoslavia. Fu allora che io e la mia famiglia ci trasferimmo a Casale Monferrato. Per tutti noi furono anni difficili; in fabbrica i ritmi di lavoro al limite della sopportabilità, ma né mio padre, né mio zio ebbero alcun problema con l’amianto. Niente, nemmeno un punto di asbestosi. Una cosa difficile da spiegare, se non con la propensione che hanno delle persone più di altre, come mi ha spiegato più di un medico, a contrarre il mesotelioma o l’asbestosi.
Ma la prova più dura doveva arrivare l’anno successivo. A marzo del 2004, all’età di 50 anni appena compiuti, si ammalava Maria Rosa. Era l’ultima delle cose che mi sarei aspettata; per questo all’inizio non ebbi nessun timore per lei. Sapevo che era caduta, che si era fatta male alla schiena. Anche lei non pensava al mesotelioma, credeva di avere una vertebra rotta. Il fatto di non aver mai lavorato all’Eternit, essendo impiegata in una concessionaria della Lancia, pensava – un po’ ingenuamente e nonostante la fine di sua zia e di suo cugino – che l’avrebbe messa al riparo dai rischi maggiori. Visto che però il dolore persisteva, chiese a degli amici medici di farle una radiografia. Quel sabato, mi hanno raccontato poi, ridevano e scherzavano tra loro. Fino a quando non hanno osservato la lastra. A quel punto, è stata lei stessa a capire, senza che nessuno glielo spiegasse, la natura e la gravità del suo male: le lastre erano identiche a quelle che tante volte aveva visto in passato. Lastre completamente bianche, come quelle del suo papà.
Decise in un primo momento di non dirmi niente. Chiamò subito suo fratello, che lavorava in Cgil e abitava a Torino. A mia insaputa, fecero tutti gli accertamenti; solo dopo aver avuto la conferma che si trattava di mesotelioma pleurico, si decise a parlarmi. Ricordo che le sue parole, pronunciate alla presenza del fratello e del figlio, furono: «Mamma siediti, che ti devo parlare». Il resto non lo ricordo più, l’ho letteralmente cancellato dalla memoria. Ricordo solo di essere rimasta così, incapace di reagire, senza quasi riuscire a mettere a fuoco le cose che mi venivano dette.
Cinque mesi sono durate le sofferenze di Maria Rosa. Che nella sua tragedia, è stata anche molto sfortunata. Il suo mesotelioma era in uno stato talmente avanzato che i medici decisero di non farle la chemio, per non sottoporla a un’inutile tortura. Ma non solo questo. Alla fine di aprile, un mese dopo aver appreso del suo male, ebbe una trombosi, una crisi bruttissima mentre la sottoponevano a una tac all’ospedale di Brescia, talmente forte che sembrava non doversi riprendere più. Per non dire delle complicazioni, venute alla luce sempre in quei mesi, legate alla cattiva coagulazione del sangue. Insomma, un insieme di problemi che hanno reso ancora più difficile per i sanitari intervenire nei confronti della sua malattia. Lei spera- va di andare avanti degli anni, soprattutto per potersi dedicare a suo figlio Michele, che all’epoca aveva 25 anni, e invece – non so dire se per fortuna o per sfortuna – ha resistito ancora cinque mesi.
*Tratto da “Casale Monferrato: la polvere che uccide”
(di Guido Iocca, Ediesse - 2011)