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Centralità della persona nel lavoro organizzato oppure centralità dell’impresa (come entità giuridica, governata da gerarchia e costrizioni) ai fini dello sviluppo economico, si chiede Giuseppe Amari nel suo articolo apparso su Rassegna Sindacale il 10 luglio scorso. E la risposta, ben costruita e argomentata, depone a favore della prima, riconoscendo tuttavia il valore “normativo” della sua dimostrazione (ciò che dovrebbe essere), a scapito di quello “positivo” (ciò che è, ovvero ciò che i sistemi economici realizzano).
Si può constatare questo dato di fatto almeno su due fronti. Il primo è quello riguardante l’ossessione della riduzione dei costi, ricercata sistematicamente da imprese sempre più transnazionali, che delocalizzano il più possibile la produzione nei Paesi a più bassi standard di vita e quindi a costi salariali più contenuti, imponendo a quei lavoratori condizioni di lavoro a dir poco misere, per poter poi realizzare lauti ricavi nei mercati di sbocco delle merci. Il secondo è quello delle disuguaglianze che si stanno accumulando, da decenni ormai, e riconducibili non certamente all’azione meritocratica dei singoli individui, bensì alla logica dei rapporti di forza imperante all’interno di oligopoli economico-finanziari, dove si confrontano ad armi impari da un lato il gruppo di manager, con le sue capacità di influenza sui consigli di amministrazione nel fissare le sue remunerazioni, con stock option non legate alla performance, con gratifiche post-pensionamento, con retribuzioni differite, con piani di pensione, con prestiti agli executives e, dall’altro, lavoratori che tentano a malapena di difendere il salario reale.
“È un problema di mele marce, o è il cesto?”, si chiedeva nel 2003 Kim Clark, preside della Harvard Business School. La persistenza dei due fenomeni descritti non può che farci propendere per la seconda tesi: nell’ambito di un’economia di mercato la ragion d’essere dell’impresa non è quella di fornire un’occupazione a chi non l’ha, né quella di seguire la via alta della produttività nella ricerca del profitto, né quella di fornire condizioni di lavoro gratificanti ai dipendenti. Il “mercato” di per sé non è in grado di assicurare condizioni di lavoro consone alla dignità dei lavoratori, né un’equa distribuzione dei redditi a favore non solo dei lavoratori, ma molto spesso anche degli stessi azionisti.
Stante queste condizioni, l’unica cosa che i lavoratori possono fare è quella di organizzarsi, di unirsi, di confrontarsi con analisi appropriate nelle contrattazioni con la controparte, rivendicando al contempo che la Repubblica, attraverso lo strumento governativo della politica economica e sociale, promuova – con programmi e controlli opportuni (art. 41 della Costituzione) ‒ condizioni di lavoro dignitose, favorisca l’inclusione dei lavoratori nei processi lavorativi, sostenga una contrattazione reciprocante e lungimirante tra le parti sociali, affinché di fronte ai continui cambiamenti gli attori dello scambio possano rivelare positivamente, senza lo spauracchio del ricatto della delocalizzazione, le vicendevoli contropartite.
I profondi cambiamenti in corso nella “natura” del lavoro, con un nocciolo di manualità che continua a calare e uno spessore cognitivo richiesto che seguita ad aumentare, e la crescente importanza delle abilità nel gestire le informazioni, ma soprattutto nel produrre e scambiarsi la conoscenza dentro le organizzazioni produttive, sono temi che appaiono in secondo piano nel panorama delle discussioni attorno alle politiche pubbliche, rispetto all’attenzione riservata alle continue richieste di flessibilità “numerica” da parte delle imprese, con tipologie variegate dei contratti di lavoro che non favoriscono uno sviluppo “ad alta produttività” dell’economia, né la strada dell’occupabilità delle persone, bensì costituiscono trappole di precarietà e di povertà “cognitiva” messe in piedi per delle risposte contingenti, da cui è difficile uscire.
Ciononostante, qualcuno continua a interpretare questo fenomeno come segno o preannuncio che saremmo entrati oramai in una fase di transizione da una società “del lavoro” verso una società “dei lavori/lavoretti”, senza riconoscere che si tratta sempre della stessa sostanza (vale a dire di “lavoro”, cioè fatica, impegno, rischi, subordinazione), anche se rivestita di statuti differenziati e per di più deboli, e senza tener conto che ‒ per poter apprendere e pervenire a una costruzione di senso dell’attività lavorativa, a una costruzione dell’identità del lavoratore (l’essere parte di una squadra, di un’organizzazione) ‒ c’è l’esigenza di una certa stabilità nelle relazioni d’impiego. Tale “costruzione” richiederebbe infatti che la relazione d’impiego fosse inscritta in una regolazione contrattata, in una progettazione partecipata, che non si arrestasse a un semplice “coinvolgimento informato e incentivato”, ma che pervenisse a un “coinvolgimento negoziato”, in quanto i continui cambiamenti hanno a che fare con professionalità, ruoli, competenze, aspettative e credenze professate socialmente, costruite e continuamente giustificate.
Di fronte alle continue richieste di flessibilità “numerica” da parte delle imprese (che si potrebbe affrontare attraverso la flessibilità degli orari di lavoro e gli strumenti della banca delle ore e del part-time volontario dei già occupati, strada che potrebbe andare incontro a costi relativamente maggiori rispetto a quella dei contratti precari, ma che risulterebbe sicuramente associata a una maggior relativa produttività, e ciò che conta non è il costo del lavoro tout court di una unità di tempo, ma il costo del lavoro diviso la produttività) occorre chiedersi se la centralità della persona nei luoghi di lavoro sia sufficientemente tutelata dalle normative in vigore, e in particolare dallo Statuto dei lavoratori, oppure se non sia il caso di pensare a qualcosa di complementare allo Statuto stesso, che non solo prevenga il formarsi di condizioni che compromettono le libertà del lavoratore/cittadino e la sua dignità, e contrasti l’obsolescenza “professionale e cognitiva” dei lavoratori, ma che anzi favorisca il generarsi di “comunità di pratica” nelle quali gli apprendimenti di nuove e dilatate competenze si generino già a partire dalle caratteristiche intrinseche dei contesti lavorativi, in modo tale da poter perseguire livelli di efficienza e di competitività del sistema produttivo da un lato, ma anche di benessere sociale dall’altro.
Non va sottovalutato che il passaggio da una cultura del lavoro a quella dei lavori/lavoretti e della flessibilità numerica tende a destabilizzare molte identità e a mutare la new economy in una stress economy per effetto dell’aumento dell’ansietà e dell’abbassamento della soddisfazione sul posto di lavoro (elementi che compromettono fra l’altro la produttività del lavoro). Dato il contesto, sarebbe utile, se non addirittura indispensabile, l’approntamento di un vero e proprio “Statuto dei luoghi di lavoro” (analogo a quello che può essere un regolamento edilizio che disciplina le caratteristiche di una costruenda abitazione, opificio ecc.), oppure in subordine un “Patto sociale per l’ammodernamento dei luoghi di lavoro”, con l’obiettivo di spingere il sistema delle imprese verso un rinnovamento dei disegni organizzativi e delle pratiche di gestione delle risorse umane lungo le linee della “organizzazione che apprende” e della “impresa internamente flessibile”, che la moderna ricerca economica ha ben documentato. In entrambe le soluzioni, i meccanismi di enforcement potrebbero riguardare clausole di accesso ai benefici pubblici (sgravi sul costo del lavoro e/o per la diffusione della contrattazione decentrata ecc.).
I contenuti di questo nuovo strumento dovrebbero riguardare un insieme di requisiti minimi – una specie di protocollo organizzativo dell’impresa ‒ che vanno dal contenimento dei livelli gerarchici a un decentramento delle responsabilità e un aumento dell’autonomia delle line, da una progettazione dei posti di lavoro per “isole” per favorire il lavoro di gruppo (che fra l’altro facilita scambi e produzione di conoscenze), a postazioni di lavoro che contengano operazioni usuali e inusuali (tenuto conto che dall’esercizio ripetuto di queste ultime operazioni si sviluppano le abilità cognitive), dalla rotazione fra diverse postazioni (per la costruzione di polivalenza e policompetenza) ai sistemi di suggerimento dal basso e infine a incentivi (sia di breve che di lungo periodo) che riconoscano esplicitamente gli sforzi di apprendimento, di crescita e di riposizionamento professionale dei lavoratori.
Uno “Statuto dei luoghi di lavoro” con queste connotazioni sembra peraltro in perfetta assonanza da un lato con l’idea di una contrattazione a due stadi così come oggi è praticata nelle categorie nel nostro Paese (al di là dei contenuti di ogni ccnl), con accordi aziendali integrativi volti alla realizzazione di “programmi concordati” sul piano dell’innovazione organizzativa tra le parti aventi come obiettivo incrementi di produttività, di qualità e di altri elementi della competitività, dall’altro con la tesi di Anna Grandori dell’impresa come istituzione economica della democrazia, ossia come luogo in cui si esercita la democrazia economica in modo responsabile, ovvero ancora come “bene comune” di olivettiana memoria in cui le condizioni di socialità, di civiltà e di democrazia costituiscono fattori che promuovono la centralità della persona, consentendole di potersi esprimere, di crescere cognitivamente e di concorrere collegialmente e attivamente alla definizione di traiettorie di sviluppo sostenibile.
Riccardo Leoni è docente di Economia del lavoro e di innovazioni organizzative all’Università degli studi di Bergamo