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"Vorresti che tuo figlio fosse su un barcone? Certamente no, allora non permettere che altri bambini siano sui barconi". Così Moni Ovadia, in un'intervista oggi (28 agosto) a RadioArticolo1, sulla questione dei migranti dopo il caso della nave Diciotti.
"Penso che sia semplice da capire - afferma -: il vero cortocircuito dell'uomo è il mancato riconoscimento dell'alterità, una storia che comincia da Caino e Abele secondo la versione biblica. Caino non è 'cattivo', ma non riesce a contenere l'arrivo dell'altro: Abele è l'altro, pone dei problemi e porta un bagaglio proprio. Noi invece vorremmo che l'altro servisse a noi e poi restasse nascosto".
L'attore ha sottolineato quindi la necessità di "accogliere nell'alterità". "Occorre prendere l'altro per come è fatto, non per come ti piacerebbe che fosse. Oggi abbiamo un grande nemico a cui bisogna opporsi: la violenza contro l'altro, che è veramente inaccettabile". Ovadia ha ricordato la sua provenienza: "Appartengo a un popolo trans-confinante per definizione: sono arrivato in Italia da giovane profugo, avevo una nazionalità italiana anche se ero di famiglia ebraica, ma ho sempre sentito di appartenere a un altrove".
"C'è un noto politico che sventola il Vangelo - ha proseguito l'artista -: ma il pilastro del Vangelo è andare verso l'ultimo fra gli ultimi, se togliamo questo principio allora è solo carta straccia". Sulla questione dei migranti, poi, va ricordata anche la storia del nostro Paese: "I migranti italiani sono stati in un secolo 30 milioni, la maggioranza è emigrata dal 1870 al 1970. Quando parliamo dei cosiddetti 'clandestini' di cosa stiamo parlando? Ciò che ti spinge a rischiare e morire in mare - conclude - non è un certo un hotel a quattro stelle, bensì una profonda disperazione".