L’Italia del 1938. L’Italia delle leggi razziali. Con una serie di provvedimenti, tra l’estate e l’autunno, prendono forma le disposizioni del regime nei confronti dei cittadini ebrei. Tra questi uno dei più importanti è il Regio decreto legge del 5 settembre, “Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista”. Per una strana ironia della sorte, porta la stessa data anche il Decreto legge che disciplina la presenza delle donne all’interno degli uffici pubblici e privati (il n.1514). Il personale femminile non deve superare il 10 per cento degli occupati. Le impiegate in eccedenza rispetto alla quota consentita verranno poste in pensionamento anticipato o licenziate.
Doppia persecuzione
Il 6 settembre 1938 per un maschio ebreo la vita è diventata quasi impossibile – specialmente per coloro che lavorano nell’insegnamento. Per una donna ebrea, del tutto. Vittima di una duplice discriminazione: in quanto ebrea e in quanto donna. Nonostante il ritardo della storiografia italiana, la condizione femminile durante il fascismo è stata abbastanza esplorata. Si è evidenziato a più riprese l’atteggiamento ipocrita e contraddittorio del regime verso le donne. Da un lato spinte alla modernizzazione, al coinvolgimento attivo come cittadine e supporter, dall’altro relegate a un ruolo che riconosce loro centralità quasi esclusivamente per fini riproduttivi. In questo senso anche la legislazione di tutela per le donne incinte e per le madri viene ad assumere il carattere, come è stato notato, di una “protezione discriminatoria”. Durante il fascismo le aspirazioni occupazionali delle donne trovano progressivi sbarramenti. Si creano immagini stereotipate della donna, dalla mondina alla segretaria, legate all’impossibilità materiale di seguire percorsi differenti rispetto a quelli strettamente consentiti dalla legge. La strada è segnata da passaggi stabiliti: dalla creazione di scuole per sole donne fino alla tassonomia delle professioni più “consone” al genere femminile. Tanto che “è un dato di fatto che il lavoro stesso costituisce per la donna non una meta bensì una tappa della sua vita, da risolversi prima possibile con il rientro nell’ambiente domestico” (Primo convegno nazionale del lavoro femminile commerciale, 1940). Com’è evidente, le più danneggiate saranno coloro che cercheranno di intraprendere percorsi occupazionali di alto livello: all’interno delle università o nell’esercizio di professioni che sono appannaggio quasi esclusivo degli uomini. In questo senso un aiuto per illuminare meglio le residue zone d’ombra proviene da una ricerca condotta da Sandra Riccio e dal progetto teatrale da questa germogliato (Intanto le donne, di Maria Luisa Bigai). Cominciamo dall’inizio. Sandra Riccio collabora dal 2003 al 2006 a un progetto di ricerca per l’Università di Berlino sulle donne e le libere professioni nel Novecento, occupandosi del materiale relativo all’Italia. Si imbatte in 552 faldoni, stipati in un sotterraneo del ministero dell’Istruzione. Sono le domande di abilitazione alla libera docenza nel ventennio 1930-1950. Nessuno ha mai aperto quei fascicoli. Eppure raccontano molte cose. Il campo si restringe e l’analisi si fa mirata sulle donne nell’università italiana durante il fascismo. Emergono così varie storie, di donne italiane ed ebree, le loro vittorie e sconfitte nella lotta alla discriminazione di genere (e, come si diceva allora, di “razza”).
La riforma Gentile
Su 10mila candidati che fanno richiesta per l’abilitazione, soltanto 310 sono donne (poco più del 3 per cento). Inoltre le richieste di abilitazione hanno quasi sempre a che fare con discipline scientifiche. In qualità di ministro dell’Istruzione, Giovanni Gentile si era infatti premurato di escludere le donne dall’insegnamento di materie umanistiche, lasciando loro le vili scienze, come matematica, fisica e scienze naturali. Anche con un numero di titoli superiori rispetto a quello dei colleghi maschi, le probabilità per una donna di veder accettata la propria candidatura sono nettamente inferiori. Oltre all’iscrizione al partito, prerequisito che va al di là dell’appartenenza di genere, le candidate devono anche tenere una condotta morale di specchiata virtù. Una lettera del prefetto accompagna le domande delle donne, specificando variabili economiche e familiari, la condizione – se nubile o sposata – e il comportamento pubblico. C’è chi per questo non potrà essere ammesso. È il caso di Maria Accascina, che nel 1939 fa richiesta per la libera docenza di Storia dell’arte medievale e moderna. Ma, secondo il prefetto, “la sua condotta morale è alquanto discussa in qualche ambiente dove sono note relazioni intime da lei coltivate nel passato”. Il che significa che la dottoressa ha un comportamento improprio. Tanti i nomi, tante le storie e diverse le motivazioni che impedirono o permisero l’accesso alla libera docenza. Come Teresa Labriola, figlia del filosofo Antonio e fervida seguace del regime, la prima donna avvocato nel 1919, che pure non riuscì ad accedere all’insegnamento e il massimo che ottenne fu di essere ammessa nella terna finale dell’esame. O come Ginestra Amaldi, a cui Orso Maria Corbino non concederà di continuare a svolgere attività di ricerca poiché contrario alla presenza di donne all’Istituto di Fisica di Via Panisperna. Ma, come detto, colpiscono in modo particolare le vicende delle donne ebree. Perché nei documenti, spesso del dopoguerra, le loro vicissitudini sono in controluce, hanno il sapore del dopo, degli spazi bianchi, del vuoto – anche documentale – prodotto dalle leggi razziali. Ad esempio: Angelina Levi aveva vinto una prima battaglia, come donna, nel 1929, ottenendo l’abilitazione alla docenza di Farmacologia e Farmacognosia. Ma dalla lettera indirizzata al ministero veniamo a sapere che, nel dopoguerra, in seguito alle leggi razziali e all’occupazione nel 1943 della sua abitazione da parte delle Brigate nere, rischia di perdere l’insegnamento: gli attestati che comprovano la sua abilitazione sono andati smarriti.
Il suicidio di Enrica Calabresi
Stessa sorte che toccò a Enrica Calabresi, abilitata alla docenza in Zoologia nel 1924, il cui nome, a seguito delle leggi razziali, scompare dalla lista dei liberi docenti dell’Università di Firenze, come si ricostruisce da una lettera del 1956 dal ministero al rettore. Un riconoscimento troppo tardivo, però. Enrica, pur avendo perso il lavoro, aveva voluto rimanere nella sua città, Firenze. E quando nel 1944 l’andarono a prelevare nella sua abitazione, decise che, piuttosto che cadere nelle mani dei nazisti, si sarebbe data la morte da sé. E lo fece: nella notte tra il 19 e il 20 gennaio, con una fiala di fosfuro di zinco. Forse si può chiudere questa carrellata e dire che oggi le cose sono un po’ diverse, affermare – utilizzando il titolo dell’autobiografia di Margherita Sarfatti, celebre intellettuale ebrea nonché amante del Duce e primo demiurgo del mito di Mussolini, poi esule dall’Italia a causa delle leggi razziali – che è Acqua passata. Ma qualche dubbio rimane. Raccontano Sandra Riccio e Maria Luisa Bigai che, nella ricerca di fondi per lo spettacolo teatrale, hanno incontrato alcune (donne, per di più) che hanno bollato il loro lavoro come “femminista”, quindi di parte. Perplesse, non hanno potuto far altro che replicare: “Veramente noi lo pensavamo come un progetto di storia!”.