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Nel 2007, su invito di Rassegna Sindacale, hai ripercorso i luoghi di Di Vittorio: tu scrivevi e Dondero fotografava… Che ricordo hai di quell’esperienza?
Era una delle prime cose che facevamo insieme. Intanto ricordo quanto ci affascinò Di Vittorio, questa figura un po’ deteriorata dalla retorica del mito, che cercammo di rendere invece in tutta la sua straordinaria umanità di uomo e di militante politico. E come ci deluse Cerignola, dove di lui ormai non c’era già allora più niente, se non i luoghi abbastanza desertificati che lo ricordavano. L’unico riferimento costante fu lo studioso di tradizioni popolari e storia delle Terre del tavoliere Giovanni Rinaldi.
Ricordo un commovente viaggio con Mario a Ventotene, un altro luogo pieno di fascino e di storia. Lui giunse lì qualche ora prima, e quando arrivai nel pomeriggio, sceso dalla nave c’era un tizio ad aspettarmi in macchina. “Mi manda il signor Mario” mi disse. Mi fece salire a bordo e incontrammo Dondero lungo la strada. Stava lì da mezza giornata ma già aveva fatto amicizia con tutti. Lui passava e la gente lo salutava chiamandolo per nome. Fu una delle tante occasioni nelle quali capii di essere di fronte a una persona speciale.
Al di là di questa esperienza, hai avuto modo di vedere Mario all’opera più volte. Da cosa scaturiva, secondo te, quella “naturalezza” – che naturalmente non vuol dire ingenuità –, che tutti riconoscono come una delle grandi doti di Dondero?
Che Mario sia stato un fotografo di grande stile non c’è dubbio, così come era grande la sua cultura fotografica e cinematografica, per non dire di quella letteraria e storica, ma detestava la leziosità per una questione etica, quindi estetica. Per lui un povero ritratto troppo bene era una cosa oscena, pornografica, che andava a minare la denuncia. I fotografi li chiamava fotoamatori, mentre lui si riteneva un fotogiornalista, cioè uno che testimoniava anche da un punto di vista storico, politico, un avvenimento. Poi, invece, è particolare il suo conio, il suo inconfondibile bianco e nero gravido. Era come se lui, prima di fotografare le persone, partecipasse empaticamente alla loro storia, entrasse nella loro vita, e ci riusciva sempre, perché era un grande seduttore ma anche perché gli altri sapevano che potevano fidarsi di lui che li avrebbe trattati con rispetto e spirito di verità. La naturalezza è una dote artistica, plastica, che in lui credo avesse a che fare con la grande umanità che trasmetteva, ma anche per un uso non sofisticato del mezzo.
Dondero a un certo punto scelse di trasferirsi a Fermo, in provincia, la tua città. Era nato a Milano e aveva lavorato a lungo a Parigi: come giudichi questa scelta, che va un po’ forse in controtendenza…
Lui aveva già una casa in Toscana, dove veniva d’estate, credo. Poi nel 1985 vinse il Premio Scanno, e nella cittadina abruzzese incontrò un gruppo di ferrovieri fermani e fu invitato da loro nelle Marche, per una mostra. Sua moglie Annie, che era l’assistente dello storico francese Fernand Braudel, s’innamorò di Fermo e della sua biblioteca antica, tanto che decisero di stabilirsi qui. Sai, lui poteva abitare ovunque, ma giusto per avere una residenza, perché era sempre in giro. Poi però con Fermo e le Marche si è creato un rapporto molto forte, soprattutto con un gruppo di amici fotografi, tra cui Ennio Brilli, e storici come Peppino Buondonno, con me e Massimo Raffaeli, Gianni D’Elia. Era molto radicato nel quartiere di Campoleggio, molto amato da tutti, dove c’era il suo bar con biliardo e la stecca e dove guardava il suo Genoa.
Fotografo civile, lui; scrittore civile tu: cosa ti ha lasciato come insegnamento lavorare con lui?
Diciamo che con Mario è scattata subito una certa empatia. E mi ha accolto, forse perché non ha visto in me quel tipo di scrittore borghese che cerca di avvantaggiarsi, ha percepito un certo modo di fare che non era carrieristico, cosa che lui come me detestava. Diciamo che ci siamo trovati e un giorno a Monfalcone mi ha chiesto se volevo scrivere il testo per il reportage sui morti d’amianto che avrebbe voluto dare al Diario. Da quel giorno è iniziata la mia seconda vita di scrittore, non ho più scritto un rigo di fiction, ho cominciato a viaggiare come ha fatto lui in lungo e in largo. Gli devo molto, moltissimo, innanzitutto perché mi ha fatto capire ancora di più quanto fosse inutile pensare a una carriera invece che alla scrittura come a un modo per partecipare alla vita collettiva, ma gli devo molto come persona perché ho avuto la fortuna di frequentarlo, cosa che considero davvero un privilegio, e di volergli bene. E’ come se Mario avesse liberato dentro di me delle cose che pensavo da tempo, e fortificato un’idea di scrittura corporale, quella del reportage, molto fisica, che è un po’ quella che praticava lui con la fotografia analogica, contro quella digitale. Insomma, forse il reportage narrativo è un po’ l’antitesi della fiction.