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Pubblichiamo il documento elaborato dalla Cgil con le valutazioni sul Def e le proposte elaborate dalla confederazione
Una valutazione generale. Nonostante le dichiarazioni del Presidente del Consiglio e del Ministro dell’Economia e delle Finanze all’insegna della ripresa e di «meno tasse e più lavoro», il Documento di Economia e Finanza pubblica (Def) di uscito dal CdM di venerdì 10 aprile 2015 resta in continuità con le politiche economiche dei governi precedenti, perché scommette su una ripresa senza nuova occupazione e perpetua le iniquità del sistema fiscale e i tagli alla spesa pubblica, a scapito del lavoro e del welfare.
Nel Def si legge che la politica del Governo porterà «un deciso recupero dell’occupazione nel prossimo triennio», ma il tasso di disoccupazione previsto per il 2015 resta al 12,3%, il doppio di quello pre-crisi, e non si prevede un recupero dell’occupazione perduta nemmeno al 2019, in cui il tasso di disoccupazione viene programmaticamente previsto al 10,5% (e il tasso di occupazione sistematicamente sotto il 60%). Persino stando alle stesse stime di impatto di lungo periodo delle cosiddette “riforme strutturali” descritte nel Piano Nazionale di Riforme e calcolate nel nuovo Programma di Stabilità del Governo, il livello dell’occupazione pre-crisi non verrebbe recuperato prima del 2020 e i ritmi di crescita dell’occupazione necessari a ridurre la disoccupazione storica prima del 2025.
D’altra parte, è la stessa Commissione europea che – seguendo calcoli molto arbitrari – prevede un tasso di disoccupazione “naturale” (il cosiddetto Nairu) oltre il 10% per il nostro sistemapaese, che si riflette sulla stima del Pil potenziale (più alto è il Nairu e meno è alto l’output gap e il prodotto potenziale), su cui si calcola l’andamento delle finanze pubbliche in termini strutturali e il ritmo di correzione per l’obiettivo di medio termine (Omt). Il Governo ne è consapevole e lo ha già manifestato nel Def di un anno fa, ma evidentemente ciò non basta ad aprire una vera e propria “vertenza europea” e, piuttosto, considerato anche il rallentamento del turn-over dovuto alla riforma Fornero sulle pensioni, si arrende a tassi di disoccupazione giovanile attorno al 40%.
In questo modo, peraltro, il Governo impone una correzione del deficit e del debito pubblico maggiore del dovuto e si accontenta di rallentare di appena un anno il ritmo dell’austerità. La versione più recente di “austerità flessibile” (vedi Direttiva UE del 13 gennaio 2015) non cambia le direttrici delle scelte europee, né tanto meno il segno delle della crisi, in Italia come in Europa: per i conti pubblici italiani si tratta di appena 0,4 punti di minore correzione del rapporto deficit/Pil in cambio delle cosiddette “riforme strutturali”, prima tra tutte il Jobs Act. Uno scambio improprio e inefficace.
Già le linee economiche e finanziarie della Legge di stabilità varata a dicembre scorso, che vengono pressoché tutte confermate nel Def, si trovavano in linea con la politica economica europea fondata su deregolazione, privatizzazioni, rigore dei conti e svalutazione del lavoro, che privilegia finanza e mercati. Gli indirizzi di politica economica del Governo acuiscono le già insostenibili disuguaglianze tra gruppi sociali, tra imprese, tra aree del Paese e tra Stati europei (vere cause della crisi, ancora non affrontate).
Il Governo, infatti, nell’intero periodo 2015-2019, prevede una crescita dei salari in linea con l’inflazione ma ben 2,2 punti percentuali al di sotto della produttività. Ciò significa che il Governo programma la riduzione dei salari rispetto alla produttività. Non essendo programmato neanche un aumento significativo dell’occupazione, aumenterà la disuguaglianza nella distribuzione del reddito nazionale a scapito del lavoro e della crescita.
Continuando a sottovalutare la crisi di domanda e a scommettere su un’accesa competizione internazionale, accentuata dalla svalutazione dell’Euro (malgrado la bilancia commerciale dell’Area euro sia in attivo nei confronti del resto del mondo per circa 200 miliardi di euro), si rischia di aggravare i noti disordini geopolitici e il conflitto tra aree economiche del pianeta.
Il Governo, anche sulla scorta dei nuovi provvedimenti europei (soprattutto QE della Bce e Piano Juncker) e della flessione del prezzo del petrolio, continua a scommettere ingiustificatamente su una ripresa basata sulle esportazioni e sulla fiducia di consumatori e imprese: le nuove previsioni di crescita (rispetto alle stime di autunno 2014, il Pil cumulato nel triennio 2015-2017 accelererebbe da +2,9% a +3,6%) contano su più consumi e nuovi investimenti privati, in buona parte esteri, senza neanche aver scongiurato il rischio deflazione. Tuttavia, in assenza di nuovi investimenti pubblici e di una nuova politica industriale, le previsioni del Governo appaiono ancora una volta irrealistiche e illusorie.
Alcune questioni specifiche. I tagli alla spesa pubblica sono stati programmati dal Governo quando ha innescato la cosiddetta “clausola di salvaguardia” in Legge di stabilità 2015: ben 16 miliardi di aumenti su IVA e accise che dovrebbero essere evitati attraverso un’ipotetica flessibilità di bilancio, maggiori entrate trainate dalla crescita del Pil, spending review, tagli agli Enti Locali, minore spesa per interessi passivi sul servizio del debito pubblico. Tralasciando i già citati aspetti che rendono poco credibile la maggiore crescita (e le maggiori entrate), anche solo una riduzione di 10 miliardi di spesa pubblica. (centrale e locale) avrebbe effetti negativi diretti su lavoratori e pensionati, oltre che sull’economia.
In particolare, la riduzione lineare delle cosiddette tax expenditures (agevolazioni, sconti fiscali, sgravi, incentivi, ecc.) graverebbe principalmente sulle famiglie a reddito medio e basso, portando per definizione un aumento dell’imposta netta.
Allo stesso modo, la riduzione già programmata dei trasferimenti a Regioni e Comuni, il riordino delle Province e trasferimento delle competenze, i costi standard e “costi efficienti” delle funzioni rimaste agli enti di area vasta così come imbastiti dal Governo, nonché le sanzioni previste dalla modifica del Patto di stabilità interno prevista dalla Legge di stabilità 2015, determineranno ulteriori tagli alla spesa locale e aumenti delle imposte locali.
Gli stessi tagli alle municipalizzate e alle partecipate degli Enti Locali sono condivisibili solo se riducono sprechi, inefficienze, “poltrone” e costi inutili della politica e non – come sembrerebbe – se restringono i servizi pubblici e in particolare, il Trasporto pubblico locale e il sistema di Smaltimento e riciclo dei rifiuti, che poi diventano spesa privata dei cittadini, alimentando le posizioni di rendita sui mercati.
Sebbene l’ammontare dei redditi, del valore aggiunto e del gettito fiscale sommerso abbiano raggiunto livelli record in Italia proprio nell’ultimo anno, nel Def non c’è traccia di una vera lotta all’evasione e all’elusione fiscale e contributiva.
Dalle tabella nel Def, appare chiaro che – a oggi – non sono previste risorse per i lavoratori pubblici, né per la contrattazione delle retribuzioni, né tanto meno per lo sblocco del turn-over occupazionale.
Il risparmio in termini di minori interessi passivi sul debito pubblico previsto per merito della riduzione dello spread e delle misure messe in campo dalla Bce – non certo per la forza del sistema economico o per azioni intraprese dal Governo – si riduce per effetto dei derivati sul debito pubblico italiano che il Tesoro ha stipulato in passato e che oggi comportano un aggravio di spesa per interessi. Non si capisce perché il Governo non sia trasparente sull’argomento e non scelga di ricontrattarli guadagnando margini di spesa pubblica.
Le tre proposte della Cgil
La Cgil ha più volte evidenziato che esistono ampi margini nazionali per una nuova politica economica, sebbene resti indispensabile un cambiamento delle scelte europee per uscire dalla crisi. Nella prospettiva di fissare con il Def le linee macroeconomiche e le manovre di finanza pubblica in corso d’anno, anche nella Legge di stabilità, la Cgil propone:
1. L’introduzione di un’Imposta sulle Grandi Ricchezze finanziarie per recuperare le risorse utili a realizzare un Piano straordinario per l’occupazione giovanile e femminile. Si tasserebbe solo il 5% delle famiglie italiane finanziariamente più ricche, con aliquota progressiva per la parte eccedente i 350mila euro. Il gettito potenziale è di 10 miliardi di euro l’anno.
2. L’aumento della tassazione sulle successioni, almeno al livello europeo, per sostenere investimenti pubblici e nuova occupazione, nonché evitare ulteriori tagli al welfare e, in particolare, alla Sanità pubblica. Il gettito potenziale sarebbe di circa 4 miliardi di euro l’anno.
3. Utilizzare i fondi pensione dei lavoratori anche per lo sviluppo del Paese, con l’effettivo coinvolgimento delle Parti sociali e l'individuazione da parte di Cassa Depositi e Prestiti di strumenti finanziari specifici affinché i Fondi rappresentino anche uno strumento per rilanciare politiche di creazione di occupazione e di sostegno allo sviluppo infrastrutturale, sociale e produttivo del Paese, tutelando meglio il risparmio previdenziale e garantendo la redditività dei patrimoni gestiti in orizzonti temporali di lungo periodo.
Proposta 1
Un’Imposta sulle Grandi Ricchezze finanziarie per un Piano straordinario per l’occupazione
Nella crisi, le disuguaglianze nella distribuzione del reddito e della ricchezza sono aumentate. Chi aveva poco ora ha meno o niente, chi aveva molto ora ha di più. Persino l'economista e scrittore francese Thomas Piketty, nel famoso libro “Il Capitale nel XXI secolo”, in cui analizza il transito delle risorse dall'economia reale verso la finanza e l'accumulazione improduttiva dei patrimoni, sottolinea l’eccessiva concentrazione della ricchezza netta in Italia (oltre all’alto tasso di evasione strutturale). Secondo i dati della Banca d’Italia, il rapporto tra ricchezza netta e Pil è pari a 8 a 1. Da tempo la Cgil propone l’introduzione in Italia di un’Imposta sulle Grandi Ricchezze, sulla scorta del modello francese (Impôt de Solidarité sur la Fortune) per rendere più equo ed efficiente il sistema economico italiano e uscire dalla crisi. La ricchezza finanziaria (depositi, titoli di Stato, azioni, fondi comuni di investimento, ecc.), rappresenta il 43% del patrimonio privato totale ed è distribuita in modo più diseguale e inefficiente rispetto a quella immobiliare. Malgrado la complessità di operare a breve una riforma organica del sistema fiscale e in vista del riordino della tassazione locale, in questa fase sarebbe subito possibile un’imposizione, ordinaria, con aliquota progressiva (da 0,55% all’1,8%), della ricchezza esclusivamente finanziaria (al netto delle passività con relative detrazioni per salvaguardare redditi bassi e investimenti delle imprese). Tecnicamente, verrebbe tassato solo il 5% delle famiglie finanziariamente più ricche, in cui rientrano solo quelle che possiedono una ricchezza finanziaria netta superiore a 350mila euro (soglia di esenzione, da cui si applicherebbe la prima aliquota). Secondo i dati della Banca d’Italia queste famiglie possiedono il 35% della ricchezza netta complessiva: meno di 2 milioni su circa 24 milioni di famiglie italiane detengono 1.285 miliardi di euro (su un totale di 3.670 miliardi) solo di patrimonio netto finanziario. Sarebbero escluse dai calcoli tutte le proprietà immobiliari e resterebbero esenti tutte le famiglie che detengono depositi in conto corrente, azioni o altre attività finanziarie per un totale al di sotto della soglia finanziaria indicata. Il gettito potenziale si potrebbe aggirare attorno ai 10 miliardi di euro. Con circa 10 miliardi di euro l’anno si potrebbe finanziare un Piano straordinario di creazione diretta di occupazione giovanile e femminile: complessivamente si potrebbero creare oltre 740mila nuovi posti di lavoro (pubblici e privati), aggiuntivi, in tre anni, per la produzione di beni comuni e servizi pubblici, a partire dal riassetto idrogeologico e da programmi di nuove politiche sociali. Secondo le simulazioni econometriche, solo per effetto del Piano straordinario per l’occupazione il tasso di disoccupazione al 7,5%, vicino al livello pre-crisi, aumentando il Pil di 2,5 punti), in tutto il territorio nazionale. Con un intervento pubblico di questa natura, non solo si interverrebbe a sostegno della domanda effettiva, ma si attiverebbero moltiplicatori dei redditi e acceleratori degli investimenti in grado di riqualificare anche l’offerta, all’insegna dell’innovazione e dello sviluppo locale. Il Piano straordinario per l’occupazione favorirebbe anche l’azione di risanamento dei conti pubblici.
Proposta 2
Aumentare le imposte sulle successioni
Incrementare le imposte sul patrimonio, anche attraverso l'incremento delle imposte sulle successioni, diventa indispensabile per sostenere la domanda effettiva rompere l’alleanza fra capitali e rendite a scapito del lavoro e della crescita. Numerosi studi dimostrano che la riduzione delle imposte su successioni e donazioni ha avuto l'effetto di aumentare le diseguaglianze. La Cgil propone di aumentare le imposte attualmente applicate ai beni che sono ricevuti a seguito di eredità o erogazione liberale (donazione, di solito tra parenti). In Italia, l'imposta su successioni e donazioni, abrogata dal governo Berlusconi nel 2001, è stata poi reintrodotta dal governo Prodi (con il DL 262/2006) nella seguente forma:
- Aliquota del 4% del valore complessivo dell’eredità, per coniuge, genitori e figli, da calcolare sul valore eccedente 1 milione di euro, per ciascun erede.
- Aliquota del 6% del valore complessivo dell’eredità, per fratelli e sorelle, sul valore eccedente 100.000 euro, per ciascun erede.
- Aliquota del 6% del valore complessivo dell’eredità, senza alcuna franchigia, per gli altri parenti fino al quarto grado, affini in linea retta, nonché affini in linea collaterale fino al terzo grado.
- Aliquota del 8% del valore complessivo dell’eredità, senza alcuna franchigia, per le altre persone.
Proposta 3
Utilizzare i fondi pensione dei lavoratori anche per lo sviluppo del Paese
Le risorse complessive di tutte le forme di previdenza integrativa (fondi negoziali, fondi aperti, Piani previdenziali individuali - Pip) ammontano a 126 miliardi di euro, circa l’8% Pil. Di queste la quota maggiore risiede nei fondi preesistenti (circa 50 miliardi di euro), mentre il resto è suddiviso tra: 22,3 miliardi nei Pip; 13,9 miliardi nei fondi aperti; 39,6 miliardi nei Fondi negoziali. I rendimenti medi si attestano attorno al 7,3%, a fronte di quelli dei TFR all’1,3% (dati 2014). I rendimenti cumulati sul lungo periodo (2000/2014) sono del 59,5% contro il 48% da TFR. Gli aderenti ai Fondi Negoziali sono quasi 2 milioni, poco più di un milione ai fondi aperti e 2,5 milioni ai Pip. Le risorse cui fanno capo le scelte di investimento (ad esclusione dei fondi interni a banche e assicurazioni e dei fondi le cui risorse sono parte delle riserve matematiche di assicurazioni) sono in totale 86,8 miliardi di euro, investiti per 61% in titoli di debito (per 4/5 si tratta di Titoli di stato), per il 16% in Azioni e per il 12,6% in quote di Organismi di Investimento Collettivo di Risparmio (OICR). Gli investimenti destinati al sistema-Italia ammontano a 30,3 miliardi di euro, di cui 23,9 in Titoli di stato. Il regime di tassazione dei risultati di gestione è passato da 11% a 11,5% nel 2014, e con l'ultima Legge di stabilità al 20%. La Cgil, fin dalla proposta di Piano del Lavoro, ha individuato nell'investimento dei Fondi Pensione nell'economia reale uno strumento per rilanciare politiche di creazione di occupazione e di sostegno allo sviluppo infrastrutturale, sociale e produttivo del Paese. L'obiettivo primario dei Fondi Pensione rimane, ovviamente, quello di tutelare il risparmio previdenziale, garantendo la redditività dei patrimoni gestiti in orizzonti temporali di lungo periodo. Tale obiettivo può essere coniugato con l'interesse generale del Paese individuando un quadro di strumenti e garanzie che ne consentano l’utilizzo per investimenti nell’economia reale. Ciò è ribadito anche da un recente studio del FMI (World Economic Outlook, novembre 2014) in cui si dimostra che per ogni euro in investimenti pubblici di lungo periodo e, in particolare, infrastrutturali, ne tornano all’economia reale almeno 3 euro e si recupera la precedente spesa nel Bilancio pubblico. Ciò presuppone un effettivo coinvolgimento delle parti sociali in un confronto trasparente che definisca:
- le finalità di politica economica e sociale da perseguire con le risorse dei fondi pensione
- la garanzia pubblica per la tutela del risparmio investito
- i rendimenti attesi e la loro congruità con la natura del risparmio previdenziale
- le politiche fiscali a sostegno