7 marzo 2020

(Undicesima puntata del nostro viaggio tra coronavirus e scrittori)

Scrivo queste brevi righe da una casa in un quartiere molto popoloso di Roma. Dicono che presto anche qui verranno tracciate le linee della zona rossa. Chi lo dice? Voci. Voci che sussurrano e avanzano ipotesi. Sono esattamente otto giorni che non vado al lavoro, non per ragioni legate all'emergenza sanitaria.

Nell'ultima settimana ho avuto il tempo – tre ore trafugate alle incombenze quotidiane – di scrivere soltanto la bozza di alcune pagine di accompagnamento a cui una casa editrice mi ha gentilmente chiesto di pensare per il romanzo breve di un'autrice cilena. È un'opera che parla delle cicatrici dei sogni. I protagonisti sono poco più che bambini e i loro sogni sono le emissioni spettrali di una notte collettiva.

Per il resto dei giorni appena passati ho respirato l'odore di reparti ospedalieri, viaggiato su mezzi pubblici stranamente poco affollati, ascoltato, per strada, frasi in lingue che all'improvviso sembravano più antiche e solenni, e ho pensato che la stanchezza e la mancanza di sonno mi avessero trasportato in una megalopoli fuori dal tempo.

Ho letto giornali, guardato trasmissioni, cercato articoli, ricevuto messaggi e telefonate, ho comprato medicine, ho letto libri per bambini, pochissime pagine di libri per adulti, ho resistito alla tentazione di riattivare un paio di profili social (non ne faccio uso da anni), sono rimasto in costante contatto con i colleghi della libreria di San Lorenzo dove lavoro. Nelle ultime due settimane abbiamo dovuto annullare gli eventi che permettono al fragile equilibrio del nostro commercio di prosperare. In compenso, mi dicono, stiamo vendendo buoni libri. Soprattutto pare ci sia un certo rinnovato interesse per i cosiddetti “libri che non si possono non leggere prima di morire”.

In balcone stamattina, mentre fumavo dopo aver aggiunto due frasi al romanzo con cui combatto ormai da otto anni, ho sentito un insolito silenzio. Mia figlia di tre anni e mio figlio di sei giorni dormivano. Forse era il silenzio del sabato, il silenzio di un sabato come gli altri, o forse c'era, come mi è parso, in quel silenzio qualcosa di nuovo, un’aria luminosa, «un silenzio che», scrive Thomas Bernhard, «fa davvero orrore alla natura». Niente traffico, niente ambulanze o volanti della polizia, nessuna traccia del rombo che sembra la voce profonda della città.

Il silenzio che ultimamente avvertiamo, o meglio questo rumore bianco in cui di tanto in tanto si affacciano versi di uccelli e isolate voci umane che balbettano qualcosa, e che tentiamo di coprire con parole inadatte, ci accompagnerà ancora a lungo. Dovremo amarlo e custodirlo, considerarlo come una prefigurazione. Attraversarlo non ci obbligherà a raccontare la sua comparsa, e tuttavia non potremo ignorarne il lascito. Il silenzio degli ultimi giorni e dei giorni che ancora verranno è tessuto cicatriziale e come ogni cicatrice, come ogni sogno, a distanza di tempo tornerà a farsi vivo. Ne troveremo tracce in ciò che leggeremo e scriveremo, ne porteremo con noi i residui fisici, sociali e psichici. Questo, è ovvio, non comporta che la letteratura o in generale la vita umana sulla terra possano in qualche modo trarne giovamento.

Continueremo, quando l’emergenza passerà, a scrivere opere ignobili e a condurre vite infami. Solo di tanto in tanto, può darsi, ci ritroveremo tutti insieme dentro il fantasma di uno strano sogno, in un mattino di quiete abbacinante in cui tutto apparirà uguale a sempre, tutto tranne noi.

GLI INTERVENTI PUBBLICATI:
Gazoia | Janeczek | Falco | Scego l Santoni | 
Pecoraro 
Sarchi Biondillo | Ginzburg | Targhetta
Le parole che servono
, D.Orecchio