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Il tempo che dobbiamo vivere non lo possiamo scegliere, ma se potessimo farlo, il momento storico dove le idee, le aspettative e l’organizzazione della società sono fondamentali è proprio l’attuale, nel pieno della crisi economico-sociale iniziata nel 2007. Molti Paesi hanno recuperato le posizioni iniziali, ma la sensazione è quella di una crisi di paradigma, e ogni giorno ne troviamo una nuova conferma.
La crisi dell’Italia è più lunga e profonda di quella del 1929. In molti sostengono che viviamo una crisi della teoria economica, della politica, del capitale e del lavoro. Senza esasperare la già severa analisi, dobbiamo anche sottolineare che la crisi del capitale italiano non ha precedenti storici. Quando il capitale sceglie di consolidare il proprio profitto attraverso il residuo del costo del lavoro, che non è tra le principali voci di spesa delle imprese, vuol dire che ha rinunciato al proprio ruolo di agente economico del cambiamento.
La crisi del lavoro nazionale è innanzitutto una crisi del capitale. Sebbene abbia perso contatto con le grandi trasformazioni della società, il capitale nazionale è diventato anche “feudale”, trasformandosi in un vincolo per il Paese. La crisi del capitale, inevitabilmente condiziona il lavoro e la sua rappresentanza. In un certo senso, il capitale italiano è diventato il rentier agricolo di ricardiana memoria.
Il fatto è che non attraversiamo una crisi ciclica. Paolo Leon parlava in proposito di Storia. Non è la prima volta che accade, ma questa crisi (Storia) sembra più difficile da sciogliere. Il dibattito politico e sociale richiama spesso le grandi “coppie” del capitalismo – capitale e lavoro –, ma il capitalismo non si esaurisce nella coppia capitale-lavoro. Nel frattempo, si è consolidata la finanza; è sempre esistita e ha spesso anticipato i cicli economici, così come li ha esasperati.
Se osserviamo lo stato di salute del lavoro e del capitale, possiamo solo rappresentare l’ininfluenza e l’incapacità di questi nel delineare degli equilibri superiori; un aspetto che richiama la rappresentanza di interessi particolari in un sistema economico diventato sempre più interdipendente. Pensando all’Italia, c’è ancora qualcuno che sostiene che Confindustria rappresenti il capitale? Specularmente si potrebbe dire che il sindacato non sia poi messo tanto meglio, ma solo nella misura in cui guardiamo al mondo del lavoro con il filtro della coppia capitale-lavoro.
Non solo il lavoro non è una merce come tutte le altre, ma la coppia capitale-lavoro è troppo piccola e, soprattutto, strutturalmente insufficiente per ricomporre-ricostruire la Storia del capitale. Il capitalismo evolve, e nella crisi ricostruisce se stesso su altre basi e fondamenta. In molti possono vedere Marx in questa banale constatazione, ma c’è qualcosa che la formula non può dirci: la storia dell’economia, del lavoro e del capitale, delle grandi e piccole crisi, è scritta con il concorso di capitale e lavoro, ma pur sempre con altre istituzioni.
Diversamente sarebbe inconcepibile la società del ben-essere, financo del cosiddetto diritto positivo del lavoro che ha mutato il segno e il contenuto della coppia capitale-lavoro. Norberto Bobbio declina il benessere in diritti di prima e seconda generazione.
Forse il capitalismo ha i secoli contati (Ruffolo), ma nel frattempo dobbiamo immaginare come vivere al meglio il futuro che ci attende. Lo Stato di Franklin Delano Roosevelt è un rifugio intellettuale solido, ma la rivoluzione culturale di Reagan degli anni ottanta del Novecento ha cambiato in profondità la società – lavoro, capitale e Stato –, lasciando qualcosa per sempre. Finanza, moneta, libertà di movimento dei capitali, tecnologia, divisione internazionale del lavoro hanno cambiato il contenuto del capitale.
La finanza, per esempio, non realizza i propri margini sul conto del “dare e avere” di un anno, piuttosto sulla singola operazione, prefigurando un conflitto tra capitale e accumulazione (Thomas Piketty commette dei grossolani errori sul punto). Rispetto al capitalismo che investiva in beni strumentali e lavoro l’accumulazione ha cambiato segno. Questo modello (leverage) è entrato in crisi nel 2007, pregiudicando le attuali istituzioni del capitale. Alcuni continuano a credere che stiamo vivendo un ciclo, passato il quale tutto ritornerà come prima, ma viviamo la Storia.
La Storia inizia sempre con delle nuove istituzioni del capitale, fossero pure embrionali. Se questa è la sfida della società moderna, in netto contrasto con la società post-moderna, tutti i soggetti sociali dovrebbero misurarsi con questa inedita e per alcuni versi necessaria consapevolezza. Il capitale, il lavoro e la sua rappresentanza, lo Stato diversamente declinato – difficile immaginarsi uno Stato nazionale nella situazione data, così come le attuali istituzioni sovranazionali –, hanno un compito paradigmatico.
Il lavoro e la sua rappresentanza come possono misurarsi con la sfida delle nuove istituzioni del capitale? Pensando alla Cgil, il segno dell’architettura del lavoro appare abbastanza solido se guardiamo alla Carta dei diritti, che non dovrebbe essere sganciata dal Piano del lavoro. In qualche misura, la Cgil è consapevole che la rappresentanza del lavoro non è attrezzata per declinare le nuove istituzioni e suggerisce delle azioni che solo in apparenza sembrano fuoriuscire dal solco storico della rappresentanza.
La politica, che teoricamente avrebbe un ruolo potente, è troppo “ignorante” (Leon), nel senso che fluttua tra la speranza di uscire dalla crisi conservando in tutto o in parte le istituzioni reaganiane, e la possibilità di un governo di stampo keynesiano, con delle rappresentazioni che non fanno giustizia né di Reagan, né di Keynes. Lo stesso dibattitto sul peso e il ruolo dell’euro, così come l’ipotesi di uscita dallo stesso, è costretto dentro modelli che, come già ricordato, non fanno i conti con la Storia. Infatti, le forme di mercato contano nella formazione dei prezzi e nell’organizzazione del lavoro.
C’è poi un altro e non banale punto su cui veramente dobbiamo avviare una discussione. Sebbene la spesa pubblica dovrebbe trovare una declinazione e dimensione adeguata per chiudere lo squilibrio tra domanda e offerta, quando sollecitiamo nuovi investimenti pubblici, dobbiamo pensarci molto bene. La banalità “le imprese non investono” deve lasciare il posto all’analisi dell’investimento e all’equilibro “economico” tra capitale e lavoro. La distribuzione del reddito, diversamente dalla redistribuzione del reddito (la prima fa capo alla contrattazione e la seconda al carico del prelievo fiscale), concorre alla specializzazione dell’offerta di beni e servizi attraverso una domanda effettiva che cambia nel tempo.
Non solo gli investimenti non sono mai uguali, ma la configurazione-specializzazione della produzione potrebbero rendere diseconomico realizzare investimenti pubblici. L’investimento conduce sempre a un aumento del reddito, ma potrebbe anche essere inferiore a quello atteso se una parte significativa provenisse dall’estero. Ricordiamo che il 60% della ricerca e sviluppo privata nazionale è realizzata solo da quattro imprese: Finmeccanica, Telecom Italia, Intesa San Paolo e Unicredit.
Qualcuno sostiene che gli investimenti pubblici per l’ambiente e la cura subiscono meno il vincolo estero. Vero, ma sempre in misura più ridotta di quello che si immagina. Anche questi investimenti sono interessati da un contenuto tecnologico che compromette e riduce il moltiplicatore keynesiano del nostro Paese. Cosa fare, allora? Forse sarebbe utile consegnare al Paese e al lavoro la realtà per quella che è, evitando soluzioni a portata di mano del tipo usciamo dall’euro. Se è finita un’era economica e politica, e nel mentre non si intravvedono le nuove istituzioni del capitale, è il momento di liberarsi dai pregiudizi e dalle aspettative personali.
Solo le idee possono cambiare il nostro tempo e quello che ancora ci appartiene. Se viviamo la Storia e non un ciclo economico-politico-sociale, dobbiamo almeno delineare la cornice della sfida culturale che ci attende. Senza un modello alternativo e coerente, i cittadini e il lavoro continueranno ad affidarsi alle pratiche conosciute, ancorché insufficienti. Capitale, lavoro, Stato (europeo) necessitano di grandi idee per superare gli interessi costituiti. Il Novecento non è scomparso con la fine dell’era reaganiana. Si tratta di trovare un equilibrio superiore e adeguato alla sfida che attende il mondo del lavoro. Senza scomodare i grandi del passato, servirebbe un riformismo rivoluzionario. Qualcosa di meno ambizioso riproporrebbe la quotidianità in salsa diversa, ma nel frattempo la Storia si incaricherebbe di presentare il conto.