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Forse già il titolo del libro di Guido Liguori, Berlinguer rivoluzionario (Carocci, 2014, pp. 184, euro 13,00), è in esplicita polemica contro le correnti celebrazioni agiografiche di Berlinguer. Ridotto a icona pop, su cui può pontificare Jovanotti, a critico della casta, su cui possono convergere Grillo e Casaleggio, a ispiratore di un governo dei tecnici, su cui può ricamare Scalfari, a una brava persona, su cui tutti possono convenire senza lesinare negli apprezzamenti, il leader comunista perde ogni peculiare tratto distintivo.
Le immagini edificanti di oggi nascondono il volto vero di Berlinguer, che Liguori dipinge come un comunista democratico, protagonista, con il suo realismo politico rivoluzionario, della storia della repubblica. E su questo profilo è giusto insistere, anche perché è innegabile, nei toni santificanti di oggi, la rimozione totale del legame tra Berlinguer e la vicenda storica del comunismo nell’Italia repubblicana e nella scena mondiale. Come si fa a tagliare da Berlinguer la sua mai rinnegata fedeltà ai princìpi, il suo richiamo a Lenin e persino al centralismo democratico, il suo attaccamento alla classe operaia animata da una vitale spinta anticapitalista, il suo impegno per un superamento graduale del sistema dello sfruttamento?
È un Berlinguer biondo quello che viene venduto dagli apologeti di oggi, che spacciano un santino innocuo che tutti possono amare. Il ragazzo scuro che, poco più che ventenne, entrò nel mitico comitato centrale, e mise piede nell’aristocratica direzione di quella enigmatica chiesa rossa che era il Pci, era altra cosa, un politico che concedeva in modo totale la propria vita per una causa di trasformazione. Ad una politica concepita in questo modo, ossia come una scelta integrale per cambiare il mondo e la vita, era connessa la dimensione teorica (ma anche quella dell’estremo sacrificio personale in un palco di Padova) come aspetto essenziale. Per questo Liguori sceglie di interpretare “il pensiero politico” di Berlinguer. Non per iscriverlo alla storia delle dottrine, ma perché un prestigioso leader comunista era inconcepibile senza un solido pensiero politico. La strategia politica implicava il supporto di una analisi complessa, l’uso di riferimenti testuali ai classici, con citazioni ben calibrate a seconda delle esigenze del momento, una attenta elaborazione storico-sociale, una dimestichezza con le relazioni internazionali. Un capo politico era anche un raffinato intellettuale.
La leadership di Berlinguer ha avuto due distinte fasi (la consueta dizione “due Berlinguer” è però eccessiva non essendoci una cesura, ma una diversa mescolanza di elementi eterogenei, il politico e il sociale, che sussistono, anche se in proporzioni alterate, in entrambi i momenti). La prima si misura con il consolidamento democratico, con la crisi economica e i governi di solidarietà nazionale, con la maturazione di un processo di legittimazione come forza di governo. Su questa fase storico-politica, Liguori coltiva qualche dubbio. Ne rimarca i ritardi di elaborazione, ne evidenzia i segni di moderatismo (concetto però un po’ troppo severo per dirigenti come Amendola, Macaluso o Lama che spingevano sì verso un’ottica di governo ma che erano, al pari di Ingrao o di Tortorella, pur sempre dentro la tradizione della comune sintesi togliattiana), ne segnala la rottura sentimentale con parti rilevanti delle nuove generazioni.
L’opinione di Liguori è che i limiti della cultura del compromesso storico rinviino alla ostilità verso il nuovo biennio rosso scoppiato con il ’68, e alla persistenza di uno schematismo d’ascendenza togliattiana troppo incentrato sui partiti, le istituzioni e gli attori politici. A questa stagione di politicismo chiuso ai movimenti, l’autore preferisce i primi anni ’80, che videro un Berlinguer con “l’artiglio dell’opposizione” ritrovare quella connessione simpatetica con le masse che gli anni della solidarietà nazionale avevano alquanto incrinato. L’elemento di verità di questa considerazione di Liguori è che in effetti il Berlinguer di lotta e di movimento percepì il ritorno del calore sempre rassicurante di una sintonia con la base. Però un elemento di riflessione va sollevato. Liguori è molto critico con la gestione della solidarietà nazionale e ricorda che nel 1979, scendendo il Pci dal 34,4 al 30,4, “gli elettori la bocciarono clamorosamente”. Un Pci che cedeva terreno all’astensione e in parte ai radicali, e restava comunque ampiamente sopra il 30 per cento (e che stoppava il già competitivo Psi craxiano, bloccato al 9,8), per certi versi incassava un risultato miracoloso.
Quando un partito ritenuto antisistema si incammina con una grande coalizione verso la necessaria legittimazione in una democrazia sbloccata, con un contingente e preventivato sacrificio di forze vissuto come fase preliminare alla conquista del suo ruolo egemonico che lo candida quale polo di una alternativa di governo, non può permettersi di fermarsi in un limbo indefinito. Non può rompere un’esperienza ardua (una volta deliberata e in nome della stabilità di governo come valore in sé: proprio in questo Berlinguer innovò rispetto alla tradizione comunista occidentale) senza aver prima ottenuto la posta in gioco di una politica costosa e anche molto impopolare: l’ingresso a pieno titolo nel governo.
La rottura della solidarietà nazionale, senza la piena legittimazione del Pci, segnò la fine della prima repubblica, perché favorì la genesi del regime stagnante e regressivo del pentapartito. Rimane vero quello che dice Liguori, e cioè che l’iniziativa di massa e le grandi mobilitazioni operaie restituirono credito al Pci e regalarono una simpatia enorme al suo leader che, spesso in minoranza negli organismi dirigenti, aveva imboccato “una strada solitaria”. Però, con le oscillazioni tra il governo “degli uomini capaci”, le nuove sensibilità rossoverdi e le simpatie per i guerriglieri e sacerdoti del Guatemala, il Pci si aggrappava ad una zolla di accanita resistenza e viveva un appannamento strategico. Il ripartire dal sociale per “la riconquista della classe”, scelta quasi inevitabile dopo la rottura brusca del 1979, era anche un segno di difficoltà teorica (good bye Lenin?). Quella “politica sempre più per issues”, che Liguori presenta come un momento di innovazione positiva, in realtà era anche il segnale ineludibile di una mentalità “post-materialista” diffusa ormai in tutto l’Occidente che enfatizzava con il lessico dei diritti una usura della identità comunista o anche socialdemocratica.
Politiche per i diritti civili (per le coppie di fatto, per la nuova sessualità, per l’ambiente) sono cruciali ma non sono di per sé peculiari aspetti o esclusivi ingredienti di una prospettiva comunista: mentre la liberazione della classe operaia sì che lo è. Non è comunque vero quello che oggi si afferma, e cioè che il Pci morì con i funerali di Berlinguer. Non si trattava di un partito leaderistico, rammenta Liguori. E quindi neanche la scomparsa di un capo carismatico ne spiega il decesso. Il Pci morì quando il suo splendido edificio barocco, con gerarchie di papi, cardinali, vescovi, preti, credenti non seppe trovare il successore adeguato. Affidando il comando a Occhetto, sedotto proprio dalla sua politica per issues (carovane, club, legge elettorale, referendum sulle preferenze e sul finanziamento pubblico, rimozione di Togliatti etc.), il gruppo dirigente del Pci non aveva saputo scegliere l’erede con la cultura giusta, e quindi con i secondi funerali di Togliatti aveva chiuso davvero la bottega oscura.