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Il romanzo “Banditi in miniera” (Alfa Editrice, pp. 350, 20 euro) sorprende per la costruzione e i contenuti della storia, e per il flusso ininterrotto della sua narrazione (il libro è privo di capitoli). A scriverlo Francesco Carta, che riversa in queste pagine la sua esperienza nelle gallerie di carbone della Carbosulcis come minatore, prima di assumere il ruolo di delegato sindacale e in seguito di segretario della federazione dei chimici Cgil di Iglesias, in qualità di responsabile dei minatori, per oltre due decenni.
Lo scenario entro cui i personaggi e le vicende del libro prendono forma è dunque la terra di Sardegna (l’editore ha sede a Quartu S. Elena), in particolare le zone montuose a sud-ovest della regione; una terra che ci viene restituita in tutto il suo fascino, la sua meraviglia, il suo mistero. E proprio il senso del mistero è uno degli espedienti più riusciti del meccanismo narrativo del libro, che ha per protagonista una donna, Olga, alla quale viene affidato un delicato incarico dal “continente”, vale a dire far luce e risolvere l’enigma della tragica morte del sindaco di un paese, del medico che lo aveva in cura e dell’uomo che ha ucciso lo stesso medico.
Sullo sfondo, acquisendo sempre più forza e centralità nel corso della lettura, le vite e i volti di un popolo che nel tempo ha fatto delle proprie origini e tradizioni un segno di inconfondibile riconoscimento, al quale andrebbe associato un sentimento di riconoscenza da parte del resto della penisola, dell’Italia intesa come Nazione: basterebbe scorrere un buon manuale di storia moderna e contemporanea per comprenderne appieno il motivo.
Lo spazio temporale nel quale l’intera vicenda viene inclusa ci riporta al secolo diciannovesimo, l’epoca in cui il lavoro di estrazione mineraria, di argento e arsenico, diviene progressivamente il cuore pulsante della produttività dell’allora Regno di Sardegna, che si pone di conseguenza anche all’avanguardia dello sviluppo tecnico legato all’investimento economico, dalla costruzione delle prime ferrovie ai primi esperimenti di illuminazione elettrica.
Dopo esser giunta in un paese senza nome (contrassegnato nel testo soltanto da asterischi, perché come lo stesso autore tiene a rilevare un paese potrebbe valere l’altro), su un carretto trainato da due buoi dai nomi biblicamente evocativi, Salomone e Gionata, Olga ci conduce in questo mondo dimenticato eppure vivo, dove le condizioni dei lavoratori, che sono anche lavoratrici e bambini non ancora adolescenti, colpiscono grazie alle descrizioni dai toni fortemente realistici, che fotografano e denunciano lo sfruttamento dei molti a vantaggio dei pochi, la riduzione in schiavitù, senza tutele, né diritti, in nome di un profitto che lungi dal migliorare l’esistenza della povera gente, servirà ad arricchire un’oligarchia sempre più chiusa in se stessa.
Il romanzo, senza raccontarne l’esito conclusivo, ha comunque un lieto fine, quasi a voler lasciare al lettore il sapore della speranza, il desiderio di immaginare che una rivalsa – una giustizia dei più indifesi nei confronti dei prepotenti – a volte è possibile e possa ancora prendere corpo, anche a costo di essere giudicati alla stregua di banditi: spesso dal volto coperto, certo dal volto umano.