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Oggi, lunedì 27 gennaio, è il Giorno della Memoria. Ed è proprio “memoria” la prima idea che si associa al film di Roberto Faenza, Anita B., uscito il 16 gennaio nelle sale per celebrare la ricorrenza. La storia, tratta dal romanzo Quanta stella c’è nel cielo di Edith Bruck, non affronta la Shoah in modo frontale: si concentra proprio sul suo ricordo. Anita è una giovane ebrea ungherese, sopravvissuta da orfana ai campi di concentramento, che viene accolta dalla zia Monika in Cecoslovacchia. “Lascia Auschwitz fuori da questa casa”, le viene detto. La ragazza - dunque - ricomincia senza parlare, rispettando il divieto implicito imposto dalla nuova famiglia.
L’Europa di fine 1945 prova a ripartire: i maschi fanno gli operai, le femmine sono tessitrici, l’economia e la società vogliono lentamente rialzarsi. In questa ambizione, ma sempre in mezzo all’indigenza, non c’è spazio per il filo spinato del recente passato. Ecco allora il contrasto che domina il racconto: da una parte il meccanismo freudiano della rimozione, non si parla mai della morte dei propri cari (a strappare il velo sarà il personaggio di Eli, raccontando la sua grave perdita), si preferisce guardare avanti; dall’altra c’è Anita, simbolo del ricordo, che vuole dire ciò che ha subito anche in un mondo che si sforza di dimenticare.
Intorno a lei vive la comunità ebraica in Cecoslovacchia, raffigurata soprattutto nel personaggio di Moni Ovadia, che ora teme l’ombra dei russi ma con estrema dignità riafferma le proprie tradizioni: non a caso la ripresa migliore percorre la festa di Purim proponendo, malgrado la sofferenza, la possibilità di festeggiare ancora un carnevale. Faenza, dopo il più diretto Jona che visse nella balena, non mostra campi di concentramento, aggira l’orrore e inquadra il dopo: il regista pedina la sua protagonista, Anita interpretata da Eline Powell che esegue una metamorfosi nel corso della storia, con la progressiva guarigione dalle ferite e l’ingrassamento come metafora del ritorno alla vita.
Vediamo la sua rinascita che passa per un amore incerto e un viaggio, dalla provincia a Praga per compiere un aborto, salvo poi incontrare un angelo del bene travestito da medico: questo evita l’interruzione di gravidanza e - simbolicamente - inizia a riannodare i fili della solidarietà umana persi sul campo di battaglia. Per la giovane non resta che partire per una terra promessa, Gerusalemme vista come un’arcadia nella speranza di un domani migliore. Più volte, nell’intreccio, il personaggio riafferma la propria identità (“Anche se non ho documenti, io sono Anita”): un nome che è titolo del film, perché dire il proprio nome, ricordarsi chi siamo è in sé un atto contro la rimozione e in favore della Storia, pure nei suoi angoli più tragici e bui.
Anita va al cinema, si proietta Il grande dittatore: dinanzi a Charlot travestito da Hynkel, lei è terrorizzata e commossa. Negli anni della diffusione del cinema parlato, non è ancora tempo di parodia: un dittatore fa sempre paura, anche se ridicolo e paradossale. E’ il momento del ricordo, come attesta Anita custode della memoria. La tragedia di ieri non si dimentica, per lei, la dittatura non ha piegato la coscienza, ricordare è la sua stella polare. Come diceva Paulette Goddard nel capolavoro di Chaplin, rivolta al cielo: “Guardi quella stella, non è meravigliosa? Lo sa? Hynkel, con tutto il suo potere, non potrà mai toccarla”.
(Anita B. - Italia 2014 - Regia: Roberto Faenza - Durata 88’- Distribuzione Good Films)