L'articolo che segue è tratto da Idea Diffusa, l'inserto sull'innovazione digitale realizzato da Rassegna Sindacale insieme all'Ufficio lavoro 4.0 della Cgil. Qui il pdf integrale del nuovo numero.

L’industria culturale è un ottimo punto di osservazione per capire gli impatti dell’innovazione tecnologica sul mondo del lavoro. L’audiovisivo alimenta più di qualsiasi altro settore i sistemi basati sull’intelligenza artificiale. Gli umani passano in media oltre 5 ore giorno a guardare video. Con la connessione degli smartphone, tablet e televisori, ogni comportamento viene misurato ed elaborato con procedimenti automatici che trovano correlazioni con i comportamenti passati e predicono quelli futuri; una mole di dati crescente che si incrocia con quelli tracciati dai nostri spostamenti, acquisti, agende telefoniche, attività sui social.

Il secondo motivo che rende l’audiovisivo un buon punto di partenza per una critica del modello d’innovazione è la sua irriducibilità a obiettivi esclusivamente economici. Per definizione, il lavoro creativo non può essere misurato e indirizzato esclusivamente da obiettivi di valorizzazione del capitale. È chiara la logica dei tanto decantati algoritmi segreti di YouTube, Netflix o Amazon Prime. Si registra il tempo passato da ogni spettatore a guardare ogni scena e si individuano automaticamente migliaia di piccoli gruppi di persone che hanno comportamenti analoghi in rapporto a migliaia di differenti caratteristiche dell’opera; ad esempio regia, attori, luci, musica, eccetera. Sulla base del passato, si prevedono i risultati delle opere da produrre, a seconda dei diversi modelli di business.

Esistono tre tipi di algoritmi:
raccomandazione
investimento
creatività

YouTube ha un modello pubblicitario classico, fondato sui contatti. Netflix vive di abbonamenti e i suoi algoritmi sono più sensibili ai nuovi abbonati e a quelli a rischio di non rinnovare. Amazon Prime, che ha meno abbonati, riesce invece a incrociarli con i loro acquisti di ogni tipologia di merci. Sulla base degli obiettivi e delle predizioni, si indirizzano gli algoritmi di raccomandazione, quelli di investimento e, in prospettiva, quelli cosiddetti di creatività dinamica. I sistemi di raccomandazione sono i più utilizzati e utilizzano filtri basati sul contenuto (ti segnalo generi, immagini, registi attori che ti piacciono) o basati sul comportamento di altri spettatori (chi ha visto le tue serie preferite ha visto anche queste altre). In questa fase si stanno sviluppando gli algoritmi di investimento, che confrontano tra loro i costi da sostenere per diverse opere, produttori, registi, attori, tecnici. Questa comparazione è destinata ad avere un grande impatto su tutta la filiera. Ad esempio negli anni scorsi molte produzioni si sono spostate dalla Gran Bretagna a paesi, come l’Italia, che garantivano analoghi risultati a un costo inferiore.

Oggi Netflix ha scoperto che Messico e Spagna hanno un miglior rapporto tra costi e benefici attesi. La barriere linguistiche sono ormai quasi abbattute dal calo dei costi nella sottotitolazione e doppiaggio e dall’abitudine alla visione in versioni originali. Invece gli algoritmi di creatività dinamica – che consentono di distribuire versioni diverse a seconda dei target oppure di dettare ai produttori le scelte di sceneggiatura, sonoro, fotografia – sinora sono utilizzati prevalentemente per la realizzazione di spot pubblicitari. Ma in futuro anche il cinema e la televisione potranno essere trattate da sistemi di creatività dinamica. Funziona? Dal lato artistico è facile rispondere: no. Dal punto di vista della dignità del lavoro significa riduzione dell’autonomia e aumento della polarizzazione salariale. Persino se guardiamo al profitto Netflix e YouTube sono in passivo e Amazon ha chiuso da poco il suo primo bilancio in attivo; mentre l’industria complessiva dell’audiovisivo si regge solo grazie a un’imponente ciclo di fusioni. Funziona solo, e molto bene, dal punto di vista della valorizzazione del capitale. Il valore delle azioni delle società che hanno più dati e potenza di calcolo cresce infatti a ritmi impressionanti; i mercati finanziari investono su chi ha più dati e capacità di elaborarli. E vale anche il reciproco: la ricerca scientifica si indirizza sui dati e gli algoritmi utili per la valorizzazione del capitale. Non è una bolla destinata a esplodere, non a breve.

Il punto critico è che la valorizzazione del capitale non deve rimanere l’unico punto di vista. In questa fase, il compito storico del movimento dei lavoratori (di chi altrimenti?) è indirizzare anche verso altri obiettivi l’aumento esponenziale dei dati, della potenza di calcolo e della ricerca sull’intelligenza artificiale. Obiettivi laburisti: si pensi, ad esempio, a una contrattazione che sappia interferire con la polarizzazione dei redditi e con l’accaparramento da parte delle piattaforme di quasi metà dei ricavi, sottratti al redditi da lavoro. Obiettivi di accesso ai dati: si pensi, per restare nel comparto audiovisivo, a quanto si potrebbe lavorare meglio se chi produce potesse interrogare i dati granulari di visione, che oggi le piattaforme considerano un segreto commerciale. Obiettivi di pubblico interesse, ai quali il sindacato è particolarmente sensibile.

Gli obiettivi: lavoro dignitoso, accesso ai dati, pubblico interesse

In un recente seminario della Slc Cgil, il professor Francesco Siliato ha presentato uno studio sull’uso dei dati ai fini della coesione sociale. Oggi gli algoritmi di raccomandazione, di investimento e di creatività dinamica sono progettati per cavalcare (e acuire) la disgregazione sociale, profilando e segmentando sempre meglio gli spettatori. Giovani e anziani, persone con diverso livello di reddito o istruzione, vedono prodotti audiovisivi diversi. Non hanno una narrativa comune e si conoscono sempre meno. È un processo logico per i media commerciali, che si sta esasperando con il digitale e la distribuzione internet. In un settore come l’audiovisivo, largamente finanziato da denaro pubblico in forma di canone o finanziamento diretto alle opere, è possibile usare gli algoritmi anche con l’obiettivo di misurare e investire in opere che ricompongano i pubblici, restituendo racconti comuni per persone diverse.

Oggi l’intervento pubblico è finalizzato a una generica integrazione dei ricavi del settore, senza valutazioni di impatto. Un ri-orientamento verso missioni strategiche di pubblico interesse, con obiettivi misurabili, è una leva importante per bilanciare il potere degli interessi privati extra-europei. Ancor più importante è la leva del conflitto e della contrattazione sindacale. I soggetti sociali organizzati sono l’unica variabile in grado di indirizzare uno sviluppo, che né il mercato, né le istituzioni hanno dimostrato di saper regolare. Possiamo estendere questa considerazione a molti altri settori industriali. C’è un ultimo motivo che illumina il rapporto forte tra l’industria culturale e il movimento dei lavoratori. Senza quel movimento, nel secolo scorso non ci sarebbero stati film come Tempi moderni di Chaplin o il neorealismo italiano; e senza quei capolavori sarebbero state ancora più difficili lotte che sono (in parte) riuscite a civilizzare la fabbrica elettromeccanica.

Piero De Chiara, Centro per la Riforma dello Stato