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LIDO DI VENEZIA - Anni trenta, siamo nei campi di mele della California. Gli stagionali vengono duramente sfruttati dai proprietari terrieri, che li pagano un dollaro al giorno per la raccolta e rifiutano di concedere qualsiasi aumento. La soluzione? Tentare di organizzare i lavoratori e lanciare un grande sciopero, per ottenere la giusta paga e la dignità sul luogo di lavoro. È andato in onda al 73esimo Festival di Venezia, fuori concorso, l’ultimo film di James Franco: "In dubious battle", adattamento cinematografico del romanzo "La battaglia" di John Steinbeck, uscito nel 1936. La storia è la stessa dello scrittore premio Nobel americano: la rivolta degli ultimi, la grande lotta nei campi nell’America dopo la crisi del ’29. A capeggiare la protesta è il giovane Jim Nolan (interpretato da Nat Wolff), idealista e comunista, che arriva tra i lavoratori insieme a Mac McLeod, agitatore più esperto e maturo (lo stesso James Franco).
Jim e Mac insieme preparano la protesta. Il primo “problema” è mettere insieme lavoratori che non sono mai stati organizzati, provati dalla fatica e intimiditi dalla possibile ritorsione dei padroni: “Essere pagati un dollaro è meglio di niente”, questo il ritornello. Allora il più esperto Mac inizia a tessere una strategia, che fa leva sull’orgoglio dei più deboli e sulla necessità di alzare la testa: se inizialmente i raccoglitori non lo seguono, l’evento chiave è l’infortunio sul lavoro a un anziano, che precipita dalla scala proprio mentre sta raccogliendo su un albero di mele. A quel punto le menti cominciano a svegliarsi, le coscienze iniziano a cambiare.
Da qui allo sciopero il passo è breve. Attraverso lunghe scene di massa, con i comizi dei “sindacalisti” ma anche i momenti quotidiani, la pellicola ricostruisce la vita nei campi: affaticati e malvestiti, uomini e donne passano il giorno alla raccolta e di notte dormono in capannoni spesso comunitari. Tra di loro molte persone mature e perfino una ragazza incinta, interpretata da Selena Gomez, che avrà un ruolo chiave nel racconto. Quando Mac e Jim riescono a convincere i loro compagni, in una sequenza amara e struggente, la folla dei raccoglitori sceglie la protesta e inizia a scandire il grido: “Strike! Strike!”. È partita la lotta.
Una mobilitazione che all’inizio tenta la trattativa con il padrone, il quale – con disprezzo – offre un “aumento” fino a un dollaro e venti al giorno: proposta inaccettabile, ovviamente, e gli scioperanti continuano l’astensione. Fino a subire episodi di violenza: costretti alla fame, assediati dalla polizia, colpiti proprio fisicamente, gli uomini tentennano, sono sempre più stanchi ma Jim e Mac li incitano a proseguire. Come segnala il titolo, l’esito della battaglia è sempre più incerto. Non si può dire altro: basti rilevare che "In dubious battle" è un esempio di solido cinema civile americano, che rievoca una pagina di ieri per parlare di oggi, raccoglie la lezione di Ken Loach e dialoga apertamente con la nostra crisi, i nostri lavoratori in difficoltà. È anche la ricostruzione di come si organizza uno sciopero, partendo dal nulla e conquistando gradualmente la fiducia delle persone coinvolte, mostrando la possibilità di arrivare all’obiettivo.
James Franco ha incontrato il pubblico al termine della proiezione. “Non sono particolarmente politicizzato – ha spiegato il regista –, ma ho sentito l’esigenza particolare di adattare questa storia, una pagina fondamentale e poco conosciuta del passato americano. Durante gli anni cinquanta negli Stati Uniti i sindacati venivano denigrati, scontavano reali episodi di corruzione come quelli legati alla figura di Jimmy Hoffa. Un approccio del genere è però sbagliato: oggi – al contrario – si fa sempre più forte il bisogno di organizzare i lavoratori per contrastare la situazione attuale”.
“Negli anni della crisi sono proprio i deboli che vengono lasciati indietro – ha aggiunto –: nel nostro paese, e così in tutto il mondo, i lavoratori dei ceti bassi sono sempre più poveri, non vengono aiutati da nessuno. Anche la classe media si sta gradualmente impoverendo”. Sulla necessità di trasporre La battaglia: “È stata una grande sfida, sono cresciuto negli stessi luoghi di Steinbeck e ho voluto portarlo sullo schermo. Mentre giravo ho pensato a La battaglia di Algeri: c’è un grande conflitto che contiene dentro di sé tanti conflitti piccoli, storie di uomini comuni che portano avanti una lotta. Così era nel film di Pontecorvo, e così è stato anche nella California degli anni trenta”. Un romanzo che nessun regista aveva mai toccato: “Steinbeck è considerato infilmabile, ma non esistono libri che non possano diventare film: il mio lavoro si pone a metà tra cinema e letteratura, vuole essere una riflessione complessa sulle rinunce che deve fare chi lotta”.