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Pubblichiamo di seguito l'intervento con il quale il segretario confederale Giuseppe Massafra ha aperto il direttivo della Cgil in occasione del venticinquesimo anniversario della strage di Capaci
Sono trascorsi venticinque anni da quel fatidico 23 maggio 1992, quando Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Rocco Dicillo, Vito Schifani e Antonio Montinaro furono barbaramente assassinati per mano mafiosa. Con 400 kg circa di miscela esplosiva saltò per aria un pezzo di autostrada, nel tratto dello svincolo di Capaci, e con esso le auto blindate in cui viaggiavano Falcone, la moglie e gli uomini della scorta. Quel giorno Cosa nostra ebbe modo non solo di sbarazzarsi di un magistrato troppo scomodo e coraggioso che non aveva indietreggiato neanche di un passo nella sua attività investigativa contro la criminalità. La mafia riuscì anche a mostrare i suoi "muscoli", la sua devastante potenza omicida. Era quindi un segnale ben preciso a tutto lo Stato, un messaggio che parlava chiaro: "I più forti siamo noi".
Un messaggio che venne ripetuto due mesi più tardi, quando in via D'Amelio con un'altra bomba assassina venne trucidato il giudice Paolo Borsellino insieme alla sua scorta. Era il 1992, l'anno della grande crisi istituzionale della forma partito, l'anno di Tangentopoli in cui era ormai andato in crisi tutto l'assetto dello Stato italiano e la mafia di certo non avrebbe permesso, in quel preciso momento epocale, che restassero in vita i due giudici più pericolosi che mettevano a rischio la sua stessa sopravvivenza.
Eppure quell'anno rappresentò un vero spartiacque per la storia repubblicana. Dopo quei fatidici episodi qualcosa cominciò a cambiare inesorabilmente. È vero, il sistema istituzionale così come lo si conosceva crollò con le inchieste di Mani Pulite, ma a segnare l'avvento della Seconda Repubblica fu anche il testamento dei due magistrati. Il coraggio delle loro azioni, la tenacia, l'infaticabile e ostinato lavoro caratterizzarono una risposta decisa, netta, forse da qualcuno inaspettata, dello Stato e della società civile di fronte al loro sacrificio. Ciò che non perì quel maledetto 23 maggio fu la speranza di tanti cittadini onesti.
L’orrore per quanto accaduto a Falcone, sua moglie e gli agenti della scorta coinvolse chiunque lesse o vide in televisione le immagini di quella terribile strage. Era probabilmente giunto il momento di dire no alla mafia, di ribellarsi contro quella terribile piaga, di sollecitare le istituzioni a compiere delle azioni mirate affinché il sacrificio di quegli uomini onesti non risultasse vano.
Le idee di Giovanni Falcone e gli ideali nei quali credeva non morirono con lui. “Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini”, ripeteva spesso il giudice. Oggi, a distanza di venticinque anni dalla sua morte, le sue idee continuano a camminare e a vivere assieme a noi. Lo ricordiamo, e sempre continueremo a ricordarlo, come grande esempio morale, di passione civica, di attaccamento allo Stato, di abnegazione nella lotta contro le forze del crimine, della violenza, di tutto ciò che era anti-Stato.
Lo ricordiamo per la sua azione concreta nello storico maxiprocesso che segnò una svolta decisiva nella lotta contro la mafia e per i provvedimenti di legge che seguirono. Falcone era stato il principale ispiratore, da direttore degli Affari penali del ministero della Giustizia, di quei provvedimenti, tra i quali la legge sui "pentiti" e nuove norme di sistema, sul piano processuale e penitenziario, capaci di contrastare efficacemente la criminalità organizzata, fino all'istituzione della Direzione investigativa antimafia e della Procura nazionale antimafia.
Le difficoltà che in vita Falcone aveva incontrato non gli impedirono di svolgere a pieno la sua missione, lasciandoci in eredità un insegnamento: "la mafia non è affatto invincibile" egli diceva. "Si può vincere non pretendendo l'eroismo da inermi cittadini ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori della società". La lotta alla mafia non doveva essere, secondo Falcone, soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, anche religioso, che coinvolgesse tutti, che abituasse tutti a "sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, della indifferenza, della contiguità e, quindi, della complicità".
Nel solco di questo insegnamento si sviluppa il nostro impegno. Un impegno che non vuole essere solo memoria, testimonianza tangibile del passato, ma speranza concreta di futuro. La memoria o si traduce in impegno e azione concreta per il cambiamento democratico del Paese e caratterizza l’agenda politica del governo e dell'intera classe dirigente o diventa esercizio retorico vuoto, buono a quell’antimafia di cartone, parolaia, autoreferenziale, pronta a rivendicare candidature, a schermare carriere politiche, e anche, come abbiamo visto recentemente, affari illeciti volti a rafforzare il rapporto tra affari, mafia e politica.
Noi vogliamo sentirci impegnati concretamente, perché tanti passi sono stati compiuti nella lotta alla mafia, ma tanti ancora occorre compierne. Il nostro è un impegno che guarda alla condizione delle persone e mette al centro il tema del lavoro come motore di emancipazione, strumento di coesione, come elemento per superare tutte le forme di disuguaglianza che sono alla base del proliferare di ogni forma di illegalità. La nostra azione si è sempre proposta un duplice obiettivo: da un lato quello di diffondere una cultura della legalità nella società, ovunque, da Nord a Sud a partire dai luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle piazze. Convinti che il vero antidoto alla criminalità sia quello di costruire una cultura diffusa.
Dall'altro lato il nostro impegno è stato quello di interpretare il nostro ruolo come attore propositivo per l'individuazione di strumenti concreti per affermare la legalità. Strumenti di natura contrattuale e di proposta legislativa. Per questo continuiamo a spenderci, in tutto il Paese, per dire che ci vuole trasparenza negli appalti, che occorre contrastare l'evasione e la corruzione. Per dire che serve riattivare il lavoro a partire dalle aziende sottratte alle organizzazioni criminali. Per dire che servono misure di sostegno a quegli amministratori onesti che si spendono realmente nel contrasto alla criminalità. Per dire che lo sfruttamento sul lavoro è la ragione principale del potere delle mafie.
La nostra è una battaglia che è al tempo stesso culturale ed economica. Culturale, perché Il contrasto alle mafie, alla criminalità organizzata, esattamente come insegnava Falcone, non può essere condotto solo sul versante repressivo, ma deve essere soprattutto accompagnato dalla diffusione di una cultura della legalità, che coinvolga tutti e in particolare le giovani generazioni, affinché vivano tale impegno come una costante conquista di libertà. Guardare alla condizione dei più giovani nel Paese significa guardare al futuro del Paese. Significa scegliere di guardarlo oggi quel futuro per decidere di migliorarlo.
Una battaglia anche economica: c'è un tema che riguarda le infiltrazioni della criminalità organizzata nel tessuto economico e produttivo. Abbiamo visto crescere in questi anni una criminalità che agisce nella finanza, nel giro d'affari, nel finanziamento alle imprese in assenza di credito e più in generale sui meccanismi che regolano l'economia del nostro Paese. È nella crisi che si determinano le condizioni più favorevoli per l'infiltrazione delle organizzazioni criminali nel tessuto economico e produttivo di ogni territorio. È da questo punto di vista non esistono territori immuni da questi rischi, perché è proprio dove ci sono occasioni per fare business che la mafia estende i propri interessi.
E allora occorre aiutare gli anticorpi a rigenerarsi a coltivarli piuttosto che a ridimensionarli. Per questo la società civile è una risorsa fondamentale e va sostenuta. Continuiamo ad essere convinti che questa battaglia la si può vincere solo se realizza una collaborazione e una azione unitaria della società civile e delle istituzioni. E siamo altrettanto convinti che dentro la società civile il ruolo del lavoro e della sua rappresentanza costituisce un tratto fondamentale. Il lavoro che non c'è, il lavoro sfruttato, il lavoro ricattato rappresenta un fattore che determina condizioni favorevoli per le Mafie e la corruzione. In questo senso lo Stato in primo luogo deve capire che il Lavoro e il ruolo fondamentale delle sue rappresentanze costituiscono una risorsa straordinaria per battere l'illegalità.
Illegalità che per il nostro Paese rappresenta un vero e proprio cappio al collo che impedisce e mortifica una prospettiva di sviluppo, di occupazione e di convivenza libera e democratica. Oggi, più che mai, in un'epoca in cui il concetto stesso di democrazia è pesantemente messo in discussione difronte all'aumento delle disuguaglianze, all'incertezza di un futuro poco chiaro, alle crescenti pulsioni di chiusura, la risposta non può che essere forte e corale.
La mafia si sconfigge contrastandola con politiche sociali, economiche, istituzionali, mirate a ridurre povertà e ingiustizia sociale, diseguaglianza e prevaricazione, corruzione ed evasione fiscale ed estendendo la democrazia attraverso la partecipazione dei cittadini e una rappresentanza politica che rifugga da ogni forma di arroganza autoreferenziale. In questa stagione, per noi caratterizzata dalla straordinaria mobilitazione che abbiamo messo in campo per dare al lavoro la centralità e la dignità che gli spetta e che una società democratica deve garantire, quegli avvenimenti di 25 anni fa, continuano a segnare la direzione di marcia verso la quale muoverci; al tempo stesso, a poche ore dalla recrudescenza di nuovi episodi di violenza, ci si ripropone con forza il bisogno che il paese conquisti rapidamente la via della trasparenza e della legalità.
La politica deve compiere uno scatto in avanti deciso e responsabile a partire dalla approvazione della riforma del codice antimafia ferma da più di un anno e mezzo in commissione giustizia al Senato dopo che la Camera ha approvato un testo organico e pressoché condiviso. Anche Falcone, nel solco del l'insegnamento di Pio La Torre, aveva compreso che i sequestri e le confische dei beni dei mafiosi e il loro riutilizzo rappresentano una delle chiavi di volta per sconfiggere le mafie e rendere protagonista la società e il mondo del lavoro. Noi vogliamo questo. Vogliamo che le aziende confiscate diventino presidi di legalità democratica e economica punto di riferimento capace di garantire lavoro dignitoso e legale in territori spesso dilaniati, corrotti, dalla presenza mafiosa.
Nel momento in cui questi fenomeni sono in crescita esponenziale la Cgil considera inaccettabile che lo Stato non provveda immediatamente ad approvare quella riforma. Noi sentiamo l'esigenza di riaccendere i riflettori sul fatto che la lotta alla criminalità organizzata e alle mafie passa e si rafforza se lo Stato e la società civile operano assieme, nel contrasto al fenomeno della corruzione e nella pretesa di un governo della cosa pubblica trasparente, nell'applicazione delle leggi.
È tempo di aprire una nuova stagione di mobilitazione capace di unire società civile e istituzioni perché come diceva Giovanni Falcone "questo diventi un fatto straordinario di tutti nella normalità". Ecco, noi insistiamo in questo senso, proviamo a stimolare un dibattito nel Paese, in tutto il Paese, territorio per territorio, sui temi della legalità, appunto, della difesa della dignità, del valore del lavoro, affermando un principio: è cioè che se si abbassano i diritti delle persone è più difficile che si affermi una cultura della legalità ed è più difficile dunque praticare ogni forma di contrasto alla criminalità.
Noi, che a questa condizione non ci rassegniamo e non ci rassegneremo mai, diciamo che la legalità è, e continuerà ad essere, la nostra ossessione positiva e cammineremo a testa alta, come ci ha insegnato Giovanni Falcone. Perché colui che dice la verità, cammina a testa, alta muore una volta sola, colui che piega la testa e nasconde la verità muore tutte le volte che lo fa.