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(Prima puntata del nostro viaggio tra coronavirus e scrittori)
Come insegnante in una scuola di Treviso, non vado a scuola dal 22 febbraio e non ci tornerò presto. Appena è diventato chiaro che la sospensione delle lezioni non sarebbe stata breve, mi sono informato su quale fosse lo strumento più comodo per tenere video-lezioni, ci ho un po’ familiarizzato e ho iniziato a usarlo con i miei studenti.
La condivisione di uno spazio virtuale è ben altra cosa rispetto a quella di un’aula, ma tocca accontentarsi: attraverso la chat i ragazzi mi fanno domande e rispondono alle mie sollecitazioni, ogni tanto aprono il microfono e ci parliamo, e così proviamo a surrogare l’insostituibile dialogo che si ha in aula. Mi sembra il male minore, l’unico vero modo per non lasciarli soli.
Alla fine della prima video-lezione uno studente, per scherzo, mi ha chiesto: “prof, appena suona la campanella posso andare in bagno?”. Non lo ammetterebbero mai: ma a loro la scuola manca, e anche a me.
Molti mi dicono: approfittane per scrivere. Ma non ci riesco; al di là del fatto che il progetto che ho in cantiere è ancora in una fase troppo embrionale, avverto come un ronzio costante di fondo che mi rende difficile focalizzarmi su alcunché. Più concentrato è il posto in cui devo stare, meno concentrato riesco a essere.
Leggo moltissimo, ho fatto lunghe passeggiate con gli amici finché ho potuto, chiacchiero al telefono e scrivo mail su mail. E penso di essere fortunato, pur vivendo ora in una zona rossa, perché continuo ad avere uno stipendio regolare e non perderò il mio lavoro.
Eppure ho la sgradevole sensazione di qualcosa che scivola via, oltre che l’impressione, impalpabile ma dilagata ovunque, che questo avvertimento della nostra infinita piccolezza e precarietà si sia radicato così profondamente che sarà difficile tornare a fare le cose come prima.