Il recente Accordo interconfederale sulle nuove regole della contrattazione e sulla rappresentanza sindacale ha prodotto disparate valutazioni e considerazioni.

Tra l’altro, un dato molto interessante è rappresentato dal fatto che esso si prestava a diversi tipi di “interpretazioni”.

Infatti, molti osservatori - tanto “esterni”, quanto “addetti ai lavori” - hanno inteso riconoscergli (e approfondirne) un carattere specifico piuttosto che un altro.

In questo senso, il testo è stato - di volta in volta - oggetto di una “lettura” essenzialmente politica, piuttosto che sindacale.

Inoltre, la stessa “esegesi” di carattere esclusivamente sindacale, si è, di fatto, realizzata attraverso “due scuole di pensiero”. Ci sono stati commentatori che hanno preferito “stimare” l’accordo partendo dalla situazione (sindacale) antecedente il 28 giugno 2011, mentre altri l’hanno fatto prescindendo da qualsiasi tipo di valutazione pregressa.

Naturalmente, credo sia stato estremamente difficile - per tutti - rappresentare il proprio pensiero riuscendo, contemporaneamente, nella difficile impresa di non subire alcun condizionamento dalle (note) vicende che hanno caratterizzato il confronto politico-sindacale degli ultimi mesi.

E’ quindi probabile che le conclusioni e i giudizi espressi abbiano, di norma, risentito del postulato di turno.

Personalmente, nei giorni immediatamente successivi alla firma di quella che, formalmente, è ancora da considerare “un’ipotesi di accordo”, avevo dichiarato di voler adottare il massimo della cautela prima di esprimermi nel merito.

Infatti - alla luce delle prime dichiarazioni dei leader sindacali e, soprattutto, delle considerazioni “in libertà” di Sacconi e Tremonti - ritenevo fosse molto concreto il rischio di raccogliere provocazioni e rispondere a sollecitazioni “di parte”, piuttosto che esprimere serene considerazioni.

Solo a distanza di qualche settimana - quando (ormai) tutti hanno già inteso manifestare, “a caldo”, il proprio parere - in ossequio ad un metodo di lavoro che non intendo rinnegare, reputo opportuno procedere a una personale “lettura” dell’accordo.

Anticipo che mi sforzerò di farlo cercando di esprimere valutazioni e considerazioni di carattere (essenzialmente) “tecnico”. Laddove opportuno, richiamerò all’attenzione del lettore i corrispondenti contenuti del “Protocollo Ciampi” (23 luglio 1993) e dell’Accordo “separato” del 15 aprile 2009.

Eviterò, quindi, di soffermarmi su quelle che alcuni osservatori hanno indicato come le “ragioni politiche”, sottese all’intesa. Rispetto a queste, mi limito (solo) a rilevare che ancora oggi, a prescindere dalle motivazioni di “realpolitik” (tutte interne al centrosinistra) - che avrebbero indotto Cgil, Cisl e Uil a “ricompattarsi” - nulla lascia, in effetti, prevedere che, dopo il 28 giugno, si possa ritenere (definitivamente) superata la fase di sostanziale divaricazione tra le OO. SS.



Un commento al testo sottoscritto tra Confindustria e Cgil, Cisl e Uil, non può non partire dall’analisi della premessa.

In questo senso, dando per scontata l’obiezione secondo la quale un conto sono le considerazioni di carattere generale, espresse in una qualsiasi premessa, altra è la sostanza di un’intesa, il primo elemento d’interesse è rappresentato dalla formula dell’incipit attraverso il quale viene presentato l’obiettivo “comune” delle parti: “Un sistema di relazioni industriali che crei condizioni di competitività e produttività tali da rafforzare il sistema produttivo, l’occupazione e le retribuzioni”.

“Niente di straordinario”, a sentire la maggioranza dei commentatori. Sennonché, a qualche attento osservatore l’inciso in questione - competitività, produttività e solo successivamente occupazione e retribuzioni - ricorda troppo da vicino un passaggio di cui all’art. 1, comma 1, del decreto legislativo 276/03.

Quello, per intenderci, attraverso il quale il Legislatore nazionale - nel dare applicazione ai contenuti della legge-delega 30/03 (per alcuni la c.d. “legge Biagi”) - prevedeva il ricorso a contratti a contenuto formativo e a orario modulato “compatibili con le esigenze delle aziende e le aspirazioni dei lavoratori”. Appunto: in primis le esigenze (delle aziende) e, solo successivamente, le aspettative (dei lavoratori)!

Secondo questa lettura, la cronaca degli anni di vigenza del 276/03 è ancora tanto attuale da non essere ancora “storia”. Già rappresenta - però - l’odissea di milioni di lavoratori per i quali la “flessibilità” è diventata, troppo presto e sovente, sinonimo di “precarietà”, modulata (solo ed esclusivamente) in ossequio alle “esigenze” delle aziende, piuttosto che alle (evidentemente residuali) “aspettative” dei lavoratori.

Tra l’altro, solo per il piacere della cronaca, rilevo che lo stesso Accordo interconfederale “separato” del 15 aprile 2009, sulla riforma degli assetti contrattuali, indicava - in premessa - che l’obiettivo dell’intesa era: “Il rilancio della crescita economica, lo sviluppo occupazionale e l’aumento della produttività”. E’ quindi evidente che almeno una “subordinata” - nello spazio di un biennio - è divenuta una “principale”; e non si tratta né della crescita economica, né dell’occupazione!

La seconda curiosità è rappresentata dalla particolare enfasi con la quale - già in premessa - ci si riferisce al “rispetto delle regole”. Quasi a voler sottolineare che, in tal senso, da parte di qualcuno (il sindacato?), si renda necessario un impegno particolare e più stringente rispetto al passato!

Un’altra considerazione, rispetto all’ultimo capoverso della premessa, è dettata dalla spiacevole sensazione che, “archiviata” velocemente la pratica del Ccnl - “Fermo restando …” - il nocciolo della questione si riduca, in sostanza, all’esigenza di “garantire una maggiore certezza alle scelte” (di secondo livello).



Procedendo all’analisi del testo: quasi a voler confermare una particolare lettura dell’accordo - secondo la quale, rispetto alle (non previste) modalità attraverso le quali si dovrebbe pervenire alla stipula dei contratti nazionali, ci si trova al cospetto di una palese (rinunciataria e opportunistica) “non scelta” - il primo punto si limita a individuare la quota di “rappresentatività” necessaria (5 per cento) per partecipare alla contrattazione collettiva nazionale di categoria.

Naturalmente, sarebbe grave sottovalutare il grande elemento di novità rappresentato dal fatto che, per la prima volta, si procede all’individuazione di un “indice di rappresentatività nazionale” che abilita (e legittima) alla contrattazione.

Ciò nonostante, ritengo sia stato un errore non prevedere (anche) il grado di rappresentatività - da calcolare, ad esempio, rispetto al numero dei lavoratori complessivamente iscritti alle OO. SS. stipulanti - richiesto, ai sindacati firmatari, affinché il Ccnl sia ritenuto valido.

In pratica, se è chiaro che:

1) un sindacato che non rappresenti almeno il 5 per cento del totale dei lavoratori della categoria cui si applicherà il Ccnl, non potrà sedere al tavolo di contrattazione nazionale;

2) non si potrà avviare una contrattazione nazionale di categoria “separata”, escludendo cioè la presenza di un’organizzazione dotata del previsto grado di rappresentatività.

E’ altrettanto evidente che nulla è stato definito rispetto alla possibilità - abbastanza prevedibile - che a sottoscrivere il Ccnl siano solo alcune delle OO. SS. “abilitate”. Quale sarà il grado di “rappresentatività complessiva” necessaria per ritenere valido il contratto? In pratica (e brutalmente): quale percentuale sarà richiesta in futuro per rendere applicabile alla totalità degli iscritti anche un - eventuale - accordo “separato”?

Certo, l’intesa allegata all’Accordo prevede che saranno le singole categorie a dotarsi delle procedure e degli strumenti per definire l’iter procedurale dei rinnovi contrattuali e dei momenti di verifica, ma - personalmente - non avrei considerato una limitazione del potere decisionale delle categorie, un accordo interconfederale che avesse deciso (anche) regole certe rispetto a questo tema. In questo senso, ho il timore che un rinvio così generalizzato alle categorie possa produrre troppe (diffuse e inspiegabili) difformità procedurali rispetto a questioni che rappresentano, per i lavoratori, i momenti più importanti di partecipazione democratica alle scelte sindacali.

Contemporaneamente, è opportuno rilevare che il rinvio offre alle categorie - in primis alla Fiom - l’opportunità di ricercare tutte le soluzioni possibili per tentare di coinvolgere i lavoratori interessati. Senza, peraltro, dimenticare che, alla luce delle esperienze degli ultimi anni, la possibilità d’intese unitarie - in particolare nel settore metalmeccanico - continuerà, probabilmente, a essere molto difficile da realizzare.

Tra l’altro, un acuto e attento osservatore come Piergiovanni Alleva rileva che “tutta la documentazione, sia quella iniziale già presente nell’accordo interconfederale, sia quella futura da scrivere negli accordi di categoria, è concepita come regolamentazione di natura esclusivamente contrattuale” e, in quanto tale, se non sancita attraverso una legge, “niente e nessuno garantisce che l’unità sindacale ora recuperata duri all’infinito o anche nel medio periodo”.

Un altro (importante) problema posto da Alleva è relativo alla concreta possibilità che “un sindacato non confederale potrebbe comunque farsi il suo contratto collettivo secondo il vecchio sistema e dunque a prescindere da qualsiasi regola di rappresentatività”.

Per concludere su questo punto, è il caso di evidenziare che, probabilmente, la Camusso eccede in ottimismo nel sostenere che l’ipotesi di accordo “supera la stagione degli accordi separati”. Così come riesce difficile concordare con Bonanni quando reputa non indispensabile una legge a supporto dell’intesa unitaria; soprattutto quando - improvvidamente - arriva a sostenere che “L’accordo ha maggiore forza della legge, perché impegna tutti i protagonisti della vita sociale e ciò, di fatto, dà una validità erga-omnes all’intesa”!



Il secondo punto dell’accordo contiene - a differenza di quanto avveniva nel 1993 - la specifica indicazione della funzione del Ccnl.

Tra l’altro, il dover garantire, da parte del contratto nazionale di lavoro, “la certezza dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori ….”, sembra corrispondere alla visione “ottimistica” di alcuni commentatori e spazzare (definitivamente) via la paventata “alternabilità/sostituibilità” tra contrattazione nazionale e aziendale. Confermando, in questo senso, il contenuto del Documento finale del Comitato direttivo della Cgil del 5 luglio 2011 - secondo il quale “l’ipotesi di accordo ricolloca al centro del sistema contrattuale il Ccnl” - e, contemporaneamente, smentendo tanto le anticipazioni di Bonanni, quanto, le considerazioni finali di Sacconi.

Infatti, in un’intervista al “Sole 24 Ore” (23 giugno), il Segretario generale della Cisl anticipava che, a suo parere: “Ai contratti nazionali deve rimanere un ruolo di <cornice> entro la quale la funzione principale è la tenuta dei salari e degli stipendi rispetto all’erosione dell’inflazione, (mentre) …. il baricentro della contrattazione e delle relazioni sindacali si sposta nelle aziende e nei territori”.

Gli corrispondeva il ministro Sacconi, che, in una nota di commento “a caldo” affermava: “L’accordo è più importante del “Protocollo Ciampi” del 1993, perché riconosce la centralità della contrattazione aziendale nell’organizzazione del lavoro e della produzione ….”.

Personalmente, prima di correre il rischio di anticipare considerazioni che potrebbero, comunque, essere smentite nel corso di questa stessa analisi, credo sia opportuno operare “per sottrazione”, nel senso che, una volta valutate le competenze assegnate alla contrattazione aziendale, sarà (forse) più agevole riuscire a esprimere un giudizio compiuto sul reale ruolo riconosciuto dall’accordo al Ccnl.

Anche perché ritengo non privo di significato il fatto che quanto previsto al secondo punto rappresenti, in effetti, il “copia e incolla” del punto 2.1bis dell’accordo separato del 2009!



I punti dell’accordo che vanno dal terzo al settimo, sono relativi a quella che una volta era definita contrattazione “di secondo livello” e che - evidentemente - a valle del 28 giugno, sarà da intendersi esclusivamente di carattere “aziendale”.



Al terzo comma, nel rilevare che la contrattazione collettiva aziendale si esercita per le materie delegate dal Ccnl o dalla legge, la prima impressione è di ritrovare, sostanzialmente, la dizione prevista dagli “assetti contrattuali” del 1993. Non è così, purtroppo!

Rispetto a quel 23 luglio, infatti, c’è qualcosa che manca e qualcosa di nuovo.

Manca il limite posto alla contrattazione aziendale: affrontare e disciplinare esclusivamente “materie e istituti non ripetitivi rispetto a quelli retributivi propri del Ccnl”. C’è - di nuovo - che la contrattazione aziendale potrà essere esercitata, tanto “per le materie delegate dal contratto nazionale, quanto per quelle delegate dalla legge”!

Non appare, quindi, inverosimile il rischio che, in futuro, ci si possa trovare alla presenza di norme di contratti aziendali - relative a materie delegate dalla legge - eventualmente peggiorative rispetto a quelle previste dal Ccnl.

Tra l’altro, anche rispetto a questo passaggio, ci sono - in effetti - più “assonanze” con l’accordo separato che non con il Protocollo Ciampi.

Difatti, nel 2009, già si prevedeva la possibilità di operare su delega della legge. Contemporaneamente, ancora si escludeva - in ossequio al principio del “ne bis in idem” - che la contrattazione di secondo livello potesse riguardare materie e istituti già negoziati in altri livelli di contrattazione. Invece, il testo sottoscritto appena qualche settimana fa, ha, nei fatti, evitato alcun riferimento alla clausola che vietava di trattare le stesse materie! E’ quindi evidente - alla luce della semplice considerazione secondo la quale: “Ciò che non è espressamente vietato, è da considerarsi consentito” - che si aprono scenari e prospettive assolutamente nuove e, temo, difficilmente “governabili”.

A questo riguardo, esclusivamente a titolo di curiosità, rilevo che correva l’anno 2008 quando Federica Guidi, in qualità di presidente dei giovani imprenditori - all’annuale Convegno in quel di Santa Margherita ligure - auspicava la possibilità, per la contrattazione di secondo livello, di derogare “in pejus” al Ccnl e di prevedere (per i lavoratori) anche l’eventualità “di scivolare indietro nella scala dei voti”!

Infine, per concludere su questa questione: osservo che il punto tre dell’intesa rinvia ai contratti collettivi di categoria l’individuazione delle materie che potranno essere oggetto della contrattazione “decentrata”, ma, contemporaneamente, il successivo punto sette già indica rispetto a quali istituti e situazioni - “crisi” o “investimenti significativi” - saranno possibili intese di livello aziendale.



Attraverso il quarto comma si afferma il principio secondo il quale i contratti aziendali vincolano le OO.SS. firmatarie dell’accordo e svolgono la loro efficacia per tutto il personale in forza, se approvati dalla maggioranza dei componenti le Rappresentanze sindacali unitarie (Rsu).

Rispetto a questo punto, rilevo (almeno) due elementi di particolare interesse.

Il primo è dettato dalle forti perplessità circa la concreta possibilità che un contratto aziendale, ancorché approvato dalle Rsu, possa avere - in virtù della “legittimazione elettorale” delle stesse - una valenza “erga omnes” e considerarsi “efficace per tutto il personale in forza”. Anche per i lavoratori non iscritti o, piuttosto, iscritti a un sindacato non compreso tra i firmatari dell’accordo del 28 giugno.

A meno che, non si voglia correre il rischio - al pari di Bonanni - di subire clamorose smentite. Non a caso, a parere di Piergiovanni Alleva, la pretesa di “pensare che un accordo contrattuale possa avere efficacia giuridica generale e vincolante per tutti, ricorda la prodezza, che riuscì solo al Barone di Munchausen, di tenersi a galla sulla superficie di un lago tirandosi per i capelli con il proprio braccio”!

Ancora Alleva considera reale il rischio di una vera e propria “fuga dalle organizzazioni sindacali di quanti temono futuri contratti aziendali derogatori in pejus del contratto nazionale”.

Il secondo elemento (di curiosità) - molto meno rilevante, ma ugualmente interessante - è relativo al fatto che, nel fare riferimento alle rappresentanze sindacali unitarie, si richiamino le “regole confederali vigenti”. Purtroppo, rilevo che le suddette erano previste dall’Accordo interconfederale del 1993, che - come a tutti noto - era già stato (platealmente) “disdetto” dalla Uil lo scorso 13 giugno!

A questo proposito, qualcuno, anche tra i commentatori più autorevoli, ha ipotizzato che si sia trattato di una semplice svista.

Tra l’altro, è anche opportuno evidenziare che, contemporaneamente, nell’Intesa Cgil, Cisl e Uil - che accompagna il testo sottoscritto con Confindustria - si demanda alle categorie la definizione di regole e criteri per le elezioni delle Rsu, prefigurando, di fatto, una sicura differenziazione, senza più “regole interconfederali vigenti”.

Personalmente, anche a costo di essere accusato di chissà quali malevole intenzioni, non credo si possa parlare di una “svista”. Ritengo, piuttosto, che - in attesa della definizione delle regole (per l’elezione delle nuove Rsu) da parte delle singole categorie - per consentire, comunque, le “deroghe” (eventualmente) previste dai contratti aziendali approvati dalle “vigenti” Rsu, si sia, sostanzialmente, preferito fingere di dimenticare la disdetta della Uil!



Il comma cinque prevede che i contratti collettivi aziendali “esplicano pari efficacia” - di quelli sottoscritti dalle Rsu - se approvati dalle Rsa che, singolarmente o assieme ad altre, risultino destinatarie della maggioranza delle deleghe.

In questo caso, però, poiché l’OK al contratto risulterebbe espresso da un organismo sì rappresentativo, ma, in ogni caso, “nominato” dalle organizzazioni sindacali, si è inteso non considerare inappellabile la sua “omologazione”.

Infatti, entro dieci giorni dalla “conclusione del contratto” (che, reputo, corrisponda alla data della formale “sottoscrizione” tra le parti), una tra Cgil, Cisl, Uil, o almeno il trenta per cento dei lavoratori dell’impresa, può avanzare la richiesta di sottoporre al voto l’intesa.

La consultazione è considerata valida se partecipata da almeno il 50 per cento più uno degli aventi diritto al voto. Per respingere l’intesa è sufficiente la maggioranza semplice dei votanti.

Su questo punto, sottolineo che, se la riscoperta delle Rsa è una sorta di “ritorno alla Statuto”, in singolare contro-tendenza al più recente passato, contemporaneamente, essa rappresenta - in termini di democrazia rappresentativa - un’involuzione in confronto ai progressi realizzati con l’accordo interconfederale del 1993.

Anche se, ad onor del vero, le stesse Rsu hanno una natura “ibrida”, perché - come noto - un terzo dei loro componenti, designato dalle organizzazioni sindacali, non ha legittimazione elettorale ma rappresenterà, però, una quota determinante ai fini della formazione della maggioranza semplice (prevista per la sottoscrizione delle intese aziendali) di cui al quarto comma dell’Accordo del 28 giugno.



Il comma sei è quello che, tra gli oppositori all’accordo, ha scatenato le più vibrate proteste, perché, si sostiene - non senza ragione - che obbligare un’organizzazione sindacale al rispetto di un contratto aziendale (approvato a maggioranza Rsu o Rsa) impedendole il ricorso allo sciopero, rappresenti un’insopportabile limitazione dei diritti.

A questo proposito, rilevo due importanti elementi.

Il primo è relativo alla circostanza che nel 1993 era già presente una clausola di “tregua”, ma essa interveniva per tutt’altra questione. Infatti, attraverso il secondo paragrafo del capitolo 2.4. del Protocollo, le OO. SS. s’impegnavano - (solo) in occasione dei rinnovi contrattuali - a “non assumere iniziative unilaterali né azioni dirette” nei tre mesi precedenti la scadenza dei contratti e in quello immediatamente successivo.

Con il secondo evidenzio che l’impegno che le associazioni sindacali firmatarie si assumono attraverso il punto 6, rappresenta, in sostanza, la riproduzione di quelli già sottoscritti attraverso i paragrafi precedenti.

Probabilmente, con questa - tecnicamente superflua e scontata - riproposizione del vincolo a carico di Cgil, Cisl, Uil, si è, molto più realisticamente, inteso ribadire “Urbi et orbi” che, per il futuro, la firma di un eventuale accordo aziendale, non condiviso dalle rappresentanze sindacali Fiom, ma approvato secondo le procedure di cui ai commi 4 e 5 dell’intesa del 28 giugno, non potrà più dare corso a legittime manifestazioni di sciopero.

E’ anche questo, evidentemente, un punto dirimente del documento.

Personalmente, sono sempre stato convinto che la migliore azione di un sindacato democratico si eserciti attraverso un mix fatto di rivendicazioni, forme di protesta, contrattazione, mediazioni e, infine, “esigibilità” degli accordi sottoscritti. Uguali e corrispondenti diritti, ho sempre riconosciuto alle controparti. Non meraviglia, quindi, la richiesta di “esigibilità” degli accordi aziendali che perviene dalle imprese.

Che, però, questo debba escludere la possibilità di manifestare il proprio dissenso (ricorso allo sciopero) anche nei casi in cui ai lavoratori non sia stato consentito di esprimere direttamente la propria volontà - contratti collettivi aziendali approvati dalla maggioranza delle Rsu - non appare affatto condivisibile.

Certo, si potrà obiettare che le Rsu rappresentano un organismo eletto da tutti i lavoratori e, in quanto tale, espressione democratica degli stessi. Di conseguenza, un contratto aziendale sottoscritto dalla maggioranza dei componenti l’organismo, dovrebbe garantire tutti rispetto alla democraticità della scelta; anche l’eventuale “minoranza” che, in democrazia, si adegua alle scelte della maggioranza.

Contemporaneamente, a mio parere, resta in sospeso una (legittima) domanda.

“La mia (singola) scelta di voto, a favore del lavoratore X, per la composizione della Rsu - organismo preposto a rappresentarmi e tutelarmi sul mio posto di lavoro, al fine di non compromettere la mia condizione di lavoratore, titolare di norme, diritti e tutele - comporta (anche) la mia incondizionata “delega” a contrattare eventuali condizioni “in pejus” del mio stato in azienda”?

La mia risposta è no!



Il punto sette dell’accordo, come già anticipato in sede di approfondimento del terzo, è relativo all’indicazione delle condizioni che - in attesa delle “deleghe” previste dai Ccnl - consentono la stipula dei contratti aziendali.

Anche qui, sono opportune alcune considerazioni.

Innanzi tutto, rilevo che, in attesa delle deleghe di categoria (o della legge), è già previsto che gli accordi aziendali possono “attivare strumenti di articolazione contrattuale mirati ad assicurare la capacità di aderire alle esigenze degli specifici contesti produttivi”.

Quindi, se non erro nel ritenere che le esigenze degli specifici contesti produttivi rappresenteranno numeri e diversità pari (quasi) all’infinito, è lecito pensare alla “moltiplicazione” degli strumenti di articolazione contrattuale (leggi: deleghe) cui i contratti aziendali saranno chiamati a fare fronte.

Una vera “chicca” è, purtroppo, rappresentata dal contenuto del secondo periodo del punto 7, attraverso il quale si prevede la possibilità d’intese modificative “anche in via sperimentale e temporanea” (il che da per scontate quelle definitive) del Ccnl.

Si tratta, in effetti, dell’apoteosi del “trasformismo” applicato alla lingua italiana.

In sostanza, attraverso un’accorta “ricollocazione” dei singoli termini, il secondo periodo del punto 7 dell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, corrisponde integralmente - in una sorta di “cocktail del copia e incolla” - al punto 5.1 dell’intesa “separata” del 2009!

Al riguardo, evito alcun commento; reputo il rinvio alla comparazione dei testi, più eloquente che qualsiasi tipo di considerazione.

Non si può, però, non rilevare che quanto previsto nel 2009 era, addirittura, più restrittivo di quanto richiesto nel 2011. Infatti, l’accordo separato prevedeva la possibilità d’intese modificative delle regolamentazioni previste nei Ccnl, condizionandole all’individuazione - attraverso i contratti nazionali - di parametri oggettivi: mercato del lavoro, professionalità, tasso di produttività, ecc.

Per quanto attiene al terzo periodo del punto in esame, è già stato evidenziato che, attraverso lo stesso, si prevedono le condizioni che - sempre in attesa delle (ormai “superflue”, a mio avviso) disposizioni dei Ccnl - consentono di siglare, in via immediatamente esecutiva, accordi aziendali relativi agli istituti contrattuali “che disciplinano la prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro”.

In definitiva, non è peregrino immaginare che, quando (finalmente) le parti s’incontreranno per definire - attraverso i contratti collettivi nazionali di categoria - vincoli e limiti ai contratti aziendali, ai sensi dei commi tre e sei del recente accordo, le “delegazioni trattanti” della Cgil si troveranno di fronte ad una semplicissima richiesta di Confindustria, Cisl e Uil.

Lasciare inalterato tutto quanto di “general-generico” già previsto nel giugno 2011 per giustificare le deroghe: “stato di crisi aziendale e investimenti per favorire lo sviluppo”!



L’ultimo punto dell’intesa, come già sostenuto in altra occasione, non fa che enfatizzare ancora di più quella che - forse a giusta ragione - Raffaele Ronanni, definisce un’operazione tesa a “spostare il baricentro della contrattazione”, laddove lo spostamento, in sostanza, sottintende addirittura un’opera di “sostituzione funzionale” - tra i due livelli classici - piuttosto che di equivalenza e/o alternabilità.



In questo quadro, resta da evidenziare che appare veramente difficile condividere l’ottimismo espresso dal Documento finale del Comitato direttivo della Cgil.

In particolare, laddove si afferma che l’accordo “blocca la deriva dei contratti separati” e che lo stesso “supera la pratica delle derive ai Ccnl”.