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Il 9 Rapporto di Asvis, l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo sostenibile è chiaro e impietoso: stiamo percorrendo la via dello sviluppo insostenibile. Su ben 5 degli obiettivi dell’Agenda Onu 2023 arretriamo e difficilmente riusciremo ad arrivare a meta, su altri lo faremo con grande difficoltà. Qualora dovesse partire davvero l’autonomia differenziata da poco divenuta legge, le cose non solo sul fronte della povertà, della salute, dell’istruzione ma anche su quello dell’energia, delle infrastrutture, della mobilità non potrebbero che peggiorare. Spiega le ragioni di questa valutazione Enrico Giovannini, direttore scientifico di Asvis: afferma che se davvero si arrivasse allo spezzettamento di ferrovie, autostrade e strade, porti e reti di energia “veramente non ci sarebbe più speranza”.
Lo scorso 17 ottobre avete presentato il rapporto annuale di AVIS, il sottotitolo recita: “l'Italia è su un sentiero di sviluppo insostenibile”. Ci spiega questo insostenibile?
Innanzitutto ricordiamo che la sostenibilità riguarda l’economia, la società, l’ambiente, le istituzioni così come è stato definito dall'Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile approvata dall'Onu nel 2015. Se si osserva come progredisce l'Italia rispetto ai 17 obiettivi dell'Agenda, misuriamo che su cinque: la povertà e disuguaglianze, agricoltura, donne e lavoro, energia sia per quanto riguarda la produzione che il consumo, la condizione di ecosistemi torniamo addirittura indietro. La condizione attuale è peggiore rispetto al 2010, solo per l’obiettivo dell'economia circolare registriamo miglioramenti molto consistenti e per altri settori una stabilità o dei miglioramenti molto contenuti. La strada che stiamo percorrendo è quella dello sviluppo insostenibile.
Tra le criticità che potrebbero ulteriormente influire in maniera negativa sul raggiungimento degli obiettivi indicate l'autonomia differenziata. Sono appena stati pubblicati i dati sulla povertà in Italia, assai preoccupanti. Che impatto avrebbe la legge Calderoli su diseguaglianza e povertà?
La povertà non è soltanto l'assenza di un lavoro o l'assenza di reddito: c'è la povertà energetica, la povertà alimentare, la povertà educativa. Il governo con la legge sull’autonomia differenziata prevede di poter decentrare alle regioni ben 23 materie, tra cui l’ambiente, le infrastrutture, la mobilità, l’energia; se così accadesse, come si farebbe a tenere la coerenza delle politiche che il governo stesso, nella Strategia nazionale di sviluppo sostenibile approvata l'anno scorso e poi totalmente dimenticata, dice essere una condizione necessaria per la sostenibilità? Moltiplicare 23 materie per 21 territori, le 19 regioni più le due province autonome, determinerebbe una frammentazione di interventi per cui la probabilità di arrivare a una vera sostenibilità a 360 gradi andrebbe praticamente a zero.
Tra gli obbiettivi di Agenda 2030 c’è la riduzione della produzione e del consumo di energia, secondo il Rapporto siamo assai indietro: se venisse attuata l'autonomia differenziata cosa potrebbe succedere?
Ancora peggio di quello che sta succedendo. Sappiamo che l'energia è già una competenza trasmessa alle regioni e vediamo quanto l'Italia non riesca ad avanzare: capita spesso che ciascuna regione abbia buonissime ragioni per non fare quello che si dovrebbe fare. Ultimamente la Sardegna, ad esempio, ha definito una moratoria di sei mesi, magari corretta e legittima, per capire meglio come non trasformare il territorio solo in un mega campo eolico. Dall'altra parte se non facciamo il salto verso le rinnovabili, il prezzo dell'energia resterà sempre alto. Il governo, con il decreto sulle aree idonee, ha già delegato alle regioni il compito di scegliere dove mettere impianti fotovoltaici o parchi eolici e così non riesce a tenere il bandolo della matassa, benché questo sia anche un problema di sicurezza nazionale, come abbiamo visto con la crisi energetica a seguito dell'invasione russa dell'Ucraina, quando i prezzi dell'energia sono schizzati e abbiamo dovuto fare i salti mortali per evitare di bloccare le industrie a causa della mancanza di energie.
Le reti di trasporto e di mobilità sono sempre più reti europee: anche questa competenza passerebbe alle regioni.
Sì. Lo dico da ex ministro della mobilità e delle infrastrutture: quello sulle reti è un ragionamento che non sta in piedi. Si pensi soltanto al fatto che le regioni dovrebbero decidere cosa i singoli porti devono fare in termini di specializzazione, di investimenti, o anche su ferrovie, autostrade, tutto spezzettato. Se così fosse veramente non ci sarebbe speranza, anche perché giustamente il governo, ma non solo quello italiano, chiede giustamente all'Unione europea una maggiore coerenza, per esempio tra politica industriale e politiche ambientali. Immaginiamo quale coerenza si riuscirà ad assicurare con una frammentazione di questo tipo. Per non parlare sul piano sociale, la probabilità di avere, ancor più rispetto a oggi, trattamenti diversi nella sanità, nell'educazione, nell’assistenza agli anziani e alle persone non autosufficienti. 21 staterelli dimentichi degli interessi dell'Italia nel suo complesso, che farebbero soltanto gli interessi dei territori particolari.
Leggendo le tabelle allegate al Piano strutturale di bilancio inviate a Bruxelles, si è “scoperto” che proprio su un fronte delicatissimo come quello degli dei posti negli asili nido si è già affermata una differenza: è stato scritto nero su bianco che l'obiettivo del raggiungimento del 33% dei posti in asili nido a livello nazionale viene raggiunto, diversificando le regioni, quelle del Mezzogiorno vengono fermate al 15% di posti. Cosa significa questo dal punto di vista delle diseguaglianze?
È un approccio un po' schizofrenico, sappiamo che il periodo 0-6 anni è decisivo per lo sviluppo delle capacità cognitive relazionali dei bambini e delle bambine. Secondo i Ocse i bimbi che non frequentano neanche un anno d'asilo, a 16 anni hanno un differenziale di preparazione e di competenze significative rispetto a quelli che l'hanno frequentato: vuol dire condannare il Mezzogiorno a trasmettere da una generazione all'altra la povertà che oggi caratterizza quelle regioni. Esattamente il contrario di quello che va fatto. Nel nostro Rapporto facciamo molte proposte su come ridurre le diseguaglianze, a cominciare proprio dagli asili nido, per tutti gli obiettivi economici, sociali, ambientali e istituzionali dello sviluppo sostenibile. In più, lo sottolineiamo con forza, con la modifica della Costituzione intervenuta nel 2022 introducendo la tutela dell'ambiente, abbiamo messo nella Carta il concetto di giustizia tra le generazioni. Se non comincia dall'asilo da dove dovrebbe cominciare?
Non solo, va ricordato che perlomeno sui gli asili nido i Lep sono stati definiti e sono norma dello Stato. Una norma che è violata in assenza dell'autonomia differenziata, figuriamoci quando quella legge sarà attuata... Professore, dedicate un intero capitolo del Rapporto a quelle che voi definite le prospettive per il futuro: come si costruisce il futuro del Paese?
Si costruisce avendo chiaro dove si vuole approdare. In questo senso l'Agenda 2030 non è, come ci ricorda sempre il presidente della Repubblica, un esercizio burocratico per sognatori. Ma, come Mattarella ha ripetuto anche recentemente in occasione dell’apertura del Festival delle Regioni, è un impegno. Perché l'alternativa a uno sviluppo sostenibile è uno sviluppo insostenibile come quello in cui siamo. Dunque è necessario prendere quegli obiettivi seriamente, prendere sul serio la recente Dichiarazione sul futuro che l'Italia ha sottoscritto all'Onu il 22 settembre e lavorare per attuarla. Con la Dichiarazione sul futuro l’Italia si impegna a valutare le nuove leggi guardando al medio termine, non soltanto al giorno dopo. Si impegna a usare la scienza, si impegna a sviluppare politiche per prepararci a un futuro purtroppo incerto e pieno di choc. Basta pensare al dibattito pubblico italiano, spesso centrato sui pandori o sugli occhiali con la telecamera, per capire la distanza siderale da quello che invece non solo dovremmo fare, ma da quello che ci siamo impegnati a fare.