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Si narra che il primo sciopero della storia venne proclamato intorno al 1150 a.C. nell’antico Egitto. Durante il regno di Ramses III, gli operai del villaggio di Deir el-Medinet, addetti alla costruzione dei templi di Tebe, incrociarono le braccia al grido: “Siamo già al 18 del mese e abbiamo fame!”.
Tremila anni dopo nulla è cambiato. Anche gli edili di oggi non arrivano alla terza settimana, solo che adesso si ritrovano in buona compagnia. Operai, autisti, rider, addetti alle pulizie, insegnanti, medici, infermieri, braccianti (e la lista può allungarsi a dismisura): tutti accomunati da quel sottile filo nero di malessere, da quel fastidioso senso di sconforto e insoddisfazione.
Con l’aggravante che ai tempi delle piramidi nessun faraone si è mai sognato di mettere all’indice il dissenso. E di ricoprirsi di ridicolo. Oggi è diverso. Nelle ore in cui il ministro Salvini precettava lo sciopero generale e si dilettava a denigrare la Cgil e tutti i lavoratori, sui binari si registrava l’ennesima giornata di ordinaria follia. Ritardi, deviazioni, cancellazioni.
Ma di questo non troveremo alcuna notizia sui social del suddetto vice premier paraculetto (cit. Forza Italia). A meno che i ritardi non siano stati causati da un chiodo caduto dalla tasca di un immigrato clandestino intento a strappare via la borsa ad una ragazza dopo averle ucciso il cane che portava a passeggio.
Domanda: perché tutta questa paura per la democrazia? Perché tutto questo livore verso chi incrocia le braccia e tutta questa indulgenza per chi quelle braccia romanamente le stende? In realtà la risposta è semplice. Se ci pensate, come può una persona comprendere fino in fondo il valore dello sciopero generale se in tutta la sua vita non ha mai lavorato?