Cinque quesiti referendari per cambiare il volto del lavoro e del diritto di cittadinanza in Italia. Questa è la sfida lanciata dalla Cgil, da +Europa e dalla Rete per la Cittadinanza, promotori di una campagna referendaria che punta a correggere alcune delle storture più evidenti del sistema attuale. Tuttavia, mentre il dibattito politico non decolla, il governo non ha ancora fissato la data del voto, ma questa è la settimana decisiva.

I cinque quesiti: più diritti per lavoratori e cittadini

I referendum mirano a modificare leggi che hanno ridotto le tutele dei lavoratori e reso l’accesso alla cittadinanza più complicato:

  • Tutele nei licenziamenti: eliminare le disparità tra chi è stato assunto prima e dopo il 2015, ripristinando il diritto alla reintegra per i licenziamenti illegittimi.
  • Risarcimenti più equi: rimuovere il tetto massimo agli indennizzi per i lavoratori delle piccole imprese, garantendo risarcimenti adeguati.
  • Stop alla precarietà: reintrodurre l’obbligo per i datori di lavoro di giustificare i contratti a termine sotto i 12 mesi, contrastando il ricorso eccessivo alla precarietà.
  • Più sicurezza sul lavoro: rendere le aziende committenti sempre responsabili della sicurezza negli appalti, riducendo il rischio di impunità in caso di incidenti.
  • Cittadinanza più accessibile: dimezzare i tempi di residenza necessari per ottenere la cittadinanza e garantire il riconoscimento automatico ai figli di cittadini naturalizzati.

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Perché votare è fondamentale

Votare e partecipare è sempre importante. In questo caso lo è ancor di più. L’esito di questi referendum potrebbe infatti incidere profondamente sulla vita di milioni di persone. Il lavoro stabile, sicuro e giustamente retribuito è una condizione essenziale per la dignità individuale e per la crescita del Paese. Così come essere sicuri di tornare a casa dopo un turno di lavoro. Allo stesso modo, riconoscere la cittadinanza a chi vive e lavora in Italia da anni significa rafforzare la coesione sociale e il senso di appartenenza.

Sì, no, forse: lo scontro politico

Il dibattito sui referendum si è rapidamente trasformato in un terreno di scontro tra maggioranza e opposizione. Il centrodestra, con Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia, si oppone nettamente ai quesiti. La destra accusa i promotori di voler “imporre una visione ideologica” e di “riportare indietro” il mercato del lavoro, reintroducendo rigidità che potrebbero, a loro dire, danneggiare le imprese e frenare gli investimenti.

All’interno dell’opposizione, invece, le posizioni sono più articolate. Il Partito Democratico si è mostrato diviso: se alcuni esponenti, come la segretaria Elly Schlein, hanno espresso un sostegno di principio ai temi referendari, una parte del partito teme che il voto possa trasformarsi in una battaglia persa in partenza, considerando le difficoltà di raggiungere il quorum. Il Movimento 5 Stelle ha scelto un atteggiamento più prudente. Sebbene molte delle battaglie sui diritti del lavoro siano vicine alla loro agenda, non ha ancora espresso un sostegno pieno alla campagna referendaria.

Diversamente da Alleanza Verdi e Sinistra che si è subito schierata a favore, sottolineando l’importanza di una maggiore tutela per i lavoratori e chiedendo l’impegno di tutto il fronte progressista per superare il quorum.

Una settimana decisiva: mobilitazioni e incontri con il governo

Questa settimana sarà cruciale per il destino del referendum. Oggi, lunedì 10 marzo, il segretario generale della Cgil Maurizio Landini e il segretario di +Europa Riccardo Magi terranno una conferenza stampa per rilanciare i cinque quesiti e sollecitare il governo a fissare il voto.

Domani, martedì 11 marzo, Landini e Magi saranno ricevuti a Palazzo Chigi alle 15:30 per discutere direttamente con il governo sulla data del referendum. Ma la mobilitazione non si fermerà lì: alle 14, davanti a Montecitorio, in piazza Capranica, si terrà un presidio dal titolo “Lasciateci votare i referendum”, un chiaro messaggio contro i tentativi di ritardare o boicottare la consultazione popolare.

L’incognita della partecipazione: una sfida già vista

Come sempre nei referendum, l’affluenza sarà decisiva. Senza il 50%+1 dei votanti, il referendum sarà nullo, lasciando le norme inalterate. L’incognita della partecipazione ha segnato la storia dei referendum in Italia, con esiti molto diversi tra loro. Uno degli esempi più eclatanti di successo è il referendum del 2011, quando il 57% degli elettori si recò alle urne per dire no alla privatizzazione dell’acqua pubblica, al nucleare e al legittimo impedimento per i politici. Un segnale forte che dimostrò come, su temi cruciali, il popolo potesse far sentire la propria voce.

Ma ci sono anche referendum che non hanno raggiunto il quorum, rendendo inefficace la consultazione. Nel 2003, il referendum sull’estensione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non superò il 25% di affluenza, confermando quanto fosse difficile mobilitare i cittadini su tematiche legate al mondo del lavoro. Sorte simile per il referendum del 2016 sulle trivelle, che si fermò al 31%, nonostante una forte campagna ambientalista.

L’incertezza sulla data del voto potrebbe giocare un ruolo chiave nel determinare l’affluenza. Un referendum senza un’adeguata campagna informativa e senza una data chiara rischia di affossarsi prima ancora di arrivare alle urne. Per questo Cgil, +Europa e Rete Cittadinanza insistono: andare a votare significa dare un segnale forte per un’Italia più giusta, con più diritti e meno precarietà.